Mi chiamo Dora Monroe, ho venticinque anni e vivo a New York. Che culo, direte voi.
Vivo nella parte brutta di New York: il Bronx. È il quartiere più pericoloso e io sono l’orgogliosa occupante di un piccolo appartamento che si trova molto vicino alla famigerata circoscrizione 41, la quale, vi informo, detiene il record cittadino di 26 crimini per ogni 1.000 abitanti; ma siamo ottimisti, i record sono fatti per essere superati. I tipi di reato contemplati vanno dall’omicidio alla rapina, passando per stupro, furto e aggressione. La triste realtà è che non ho i soldi per affittare qualcosa di meglio del cubicolo che occupo; la vita a New York è cara e io sto ancora restituendo il debito studentesco con il quale ho potuto pagarmi l’università. La tana, come la chiamo con affetto e rassegnazione, è situata all’ultimo piano di uno stabile tutto sommato ancora in buone condizioni. Persino il padrone di casa è il meglio che potessi trovare. Si chiama Luther, afroamericano enorme, sulla sessantina, ex pugile ed ex molte altre cose. Oramai in pensione non si dedica più alla precedente attività e, credetemi, è meglio così. L’aspetto positivo è che per insondabili motivi mi ha adottata fin dal primo momento. So che aveva una figlia che non ha più visto dopo la prima carcerazione e probabilmente io sono il suo succedaneo. Sospetto che il mio vivere quieto con il resto del quartiere trovi le sue fondamenta proprio in questo. Nessuno oserebbe mai dare fastidio a un’amica di Luther. Da parte mia, mi sono affezionata e spesso ceniamo insieme. Lui vive al pianoterra ed è un patito della cucina italiana, fa delle Fettuccine all’Alfredo per le quali gli perdoneresti persino una strage. Non è un uomo di cultura, non intesa nel senso stretto del termine, ma ha una viva intelligenza ed è in grado di affrontare, a modo suo, molti argomenti, anche complessi. In fondo, con tutte le esperienze che ha maturato, è un laureato della vita. La nostra intesa è ancora più strana se si pensa che io provengo da una famiglia medio-borghese, adorata figlia unica di due docenti universitari.
Mio padre, Byron Edward Monroe, è laureato in fisica delle particelle ed è un uomo tutto d’un pezzo, anche se i detrattori lo definirebbero rigido o, quelli più audaci, addirittura bigotto. Nessuno, mai, in sua presenza, perché ha la lingua più arguta e tagliente di tutto lo Stato; ho visto di persona gli effetti che può provocare e, dovete credermi, ho passato la mia vita a evitare di esserne il bersaglio. Per il resto è un ottimo genitore, ma lo dico ora che vivo lontana da lui. Mia madre, Fiona Anastasia Kindell, è l’esatto opposto: laureata in letteratura inglese, ex figlia dei fiori, ha una smodata passione per la vita, che ho ereditato. Non ho mai capito come possano stare insieme e l’unica volta che l’ho chiesto alla mamma mi sono dovuta sorbire un discorso pallosissimo sullo Ying e sullo Yang, nonché una descrizione delle loro prodezze sessuali che, per una vergine sedicenne, equivalgono a una seduta di infibulazione.
Comunque alla fine ha vinto lei. Sono cresciuta tra i libri, ce n’erano ovunque a casa nostra nel Connecticut, persino sopra la lavatrice. Mentre le mie compagne di scuola si toccavano pensando al leader della boy band del momento, io lo facevo inventandomi torride fantasie su Heathcliff o, peggio, su Mr. Darcy. Questo non mi ha mai resa molto popolare. Quando ho perso la verginità, sul sedile posteriore di una vecchia station wagon, l’ho fatto con cognizione di causa. Volevo liberarmi dell’odiosa membrana e ho chiesto l’entusiastica collaborazione di un ragazzo che, l’indomani, sarebbe partito per il college. So che dovrei dire il suo nome, ma a malapena ricordo il suo viso. Comunque è stato fantastico e quando, al momento del mio primo orgasmo vaginale, ho urlato, lui è stato molto dolce: mi ha tappato la bocca e ha continuato a spingere, prendendosi il suo. Dopo ci siamo salutati come se fossimo appena usciti da un revival di film Disney e non l’ho visto mai più. Missione compiuta.
Da allora, ogni tanto, mi concedo una sveltina con qualcuno, giusto per mantenere un buon livello ormonale. Il problema, perché c’è sempre un problema, è che io non mi innamoro, o meglio: quelli di cui penso di essere innamorata non mi attirano per niente, e quelli con cui mi piace fare sesso non mi ispirano romanticismo. Qualche gene di mio padre deve essersi insinuato nella mia altrimenti perfetta doppia elica e ho la tendenza a trattare le relazioni come particelle elementari da studiare. Utilizzando il metodo scientifico, insomma.
Quindi, pur essendo un passabile esemplare della specie, e pur avendo una spiccata attitudine alla comunicazione interpersonale, gli uomini scappano. Mio padre sostiene la teoria che si sentano castrati dalla mia intelligenza superiore, mia madre sostiene invece che devo migliorare la mia tecnica nella fellatio. Si può dire che entrambi, a modo loro, sono sempre pronti a rinforzare la mia autostima.
Tuttavia, ci sono delusioni peggiori nella vita. Per esempio la carriera.
I miei genitori l’hanno presa bene quando ho annunciato il mio trasferimento nella Grande Mela. Mio padre si è fatto il segno della croce e mia madre mi ha regalato una confezione magnum di profilattici all fruits. Due giorni dopo la mia partenza, la mia vecchia camera è stata trasformata in una palestra zen, dove la mamma fa yoga con le amiche.
Lavoro in una grossa casa editrice, di quelle, per intenderci, dove rischi di portare un caffè alla Rowling o a Ken Follet. Ed è esattamente questo che faccio principalmente: porto il caffè, oltre che tenere l’agenda del mio capo.
Voi direte: “È la fine che fanno quelli che non sono voluti andare al college.”
Col cazzo! Io ci sono andata al college, eccome! Laureata a pieni voti a Yale in letteratura contemporanea.
So cosa state pensando, ora: “Un’altra scrittrice frustata, una che non ce la farà mai perché il talento c’è solo nei suoi sogni più sfrenati.”
Sbagliato! Non so scrivere e non mi piace scrivere. Però so leggere e migliorare quello che gli altri scrivono. Mi piacerebbe lavorare nell’editing ed è per questo che ho accettato il lavoro, per nulla gratificante, di assistente personale.
Speravo di farmi notare abbastanza in fretta, ma dopo ben 743 giorni – sì, avete letto bene,
sette-cento-quaranta-tre, li ho contati – ancora nessuno si è inginocchiato ai miei piedi per supplicarmi di correggere le bozze di chicchessia.
Chi dovrebbe promuovermi? Il mio capo, ovviamente. Chi è il mio capo? Alexander Maximilian Stenton III. Giuro, si chiama proprio così. Trentacinque anni portati benissimo, moro, un fisico da reato, occhi verdi come le brughiere irlandesi e due fossette da mordere. Per il resto uno stronzo anaffettivo totale. Di lui si sa solo… tutto. È l’argomento principale di conversazione delle ragazze che lavorano con me e vi posso garantire che le imprese lavorative, e non, di Lex sono ormai leggende metropolitane. Lex? Sì, Lex. Per gli amici ovviamente, e altrettanto ovviamente io lo chiamo Mr. Stenton.
Indefesso lavoratore di giorno, tombeur de femmes di notte. Attricette, modelle e affini saltellano allegramente sul contenuto dei suoi pantaloni, anche quello descritto come la quintessenza della perfezione, sia in termini qualitativi che quantitativi. Diffido sempre dei prodotti troppo pubblicizzati. Faccio spesso la battuta: “Dura lex sed lex”, riferita a lui, ma chi non conosce il latino e non è sveglio con i doppi sensi a sfondo sessuale, raramente la capisce.
Tutte lo adorano e confessano i loro sogni bagnati con lui come protagonista. Questo perché non sono costrette a conviverci tutti i giorni e perché si limitano a osservarlo tipo “tigre in cattività”: bellissima, certo, ma prova a entrare nella gabbia con lei! Per la prima volta nella vita ho qualcosa per cui le altre donne mi invidiano e neanche la desidero.
Però non mi voglio lamentare: c’è chi sta peggio di me, in qualche paese sperduto del mondo, senza acqua, né cibo. Accetto solo questo come paragone.
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