Tento di capire se ha ripreso a dormire, ma il suo respiro è irregolare per cui è sveglia. E sta continuando a piangere. Impercettibili singhiozzi fanno vibrare le sue spalle.
Che palle! Avvicino una mano per toccarla. No, non è una buona idea. Ne ho una migliore.
«Mi è passato il sonno. Scopiamo? Mi concilia, è il mio bicchiere di latte» ridacchio.
«Vaffanculo» sibila.
«Cavoli, stiamo facendo dei progressi con la comunicazione. Dove sono finiti gli accipicchia e i mannaggia?»
Non risponde. Accendo la luce sul comodino.
«Mi è passato il sonno e mi annoio. Ti va di parlare? Che so, magari di confidarci» dico ridacchiando.
Questo sì che la farà incazzare. Si gira di scatto.
«Parlare? Tu vuoi parlare con me? Per dire cosa Damon? Raccontarmi le tue imprese? Descrivermi come intendi uccidere mio padre? Farmi partecipe del mio destino? Dillo, ti prego, perché non sto più nella pelle dalla gioia che tu voglia parlare con me» finisce la frase urlando.
Resto in silenzio per qualche secondo.
«Era solo un’idea» ribatto alzando le spalle.
«Tu… spregevole individuo… tu… stronzo, bastardo, testa di cazzo, serpente… coglione!» sibila furiosa.
Le sorrido con candore. È arrabbiata. Meglio che triste.
All’improvviso si blocca incredula. Mi guarda con un’intensità che mi mette a disagio.
«Che cosa c’è adesso?»
Niente. Non parla, ma non distoglie l’attenzione da me.
«Devo iniziare a preoccuparmi? Perché nei film dell’orrore è questo il momento in cui entra in scena il mostro» dico ironico.
«Nessun mostro» replica piano.
«Bene, ciò mi rassicura. Sai che ti dico? Questa proficua chiacchierata mi ha finalmente conciliato il sonno. Ti dispiace spegnere la luce?» e chiudo gli occhi.
Resta ferma e percepisco il suo respiro.
Sussurra: «Damon…?»
«Cosa c’è?» apro gli occhi, conscio di commettere un grosso errore.
È sdraiata su un fianco, girata verso di me. Il tessuto leggero della camicia da notte cade sui suoi fianchi delineandone i contorni. I suoi seni premono sul davanti, uno dei bottoni è slacciato e fa intravedere il solco che dolcemente li separa. Le sue labbra sono semichiuse come in attesa di parlare. Ha gli occhi di un colore che ricorda il cioccolato fondente, grandi ed espressivi, sormontati dalla ciglia più lunghe che io abbia mai visto.
«Damon…»
Sembra un disco rotto.
«Pronuncerai una frase di senso compiuto o andrai avanti così?»
Sorride e appoggia la mano sulla mia guancia accennando un’esitante carezza. Giuro, sul Dio nel quale non ho mai fatto affidamento, che la mia mano assume volontà propria e mi trovo a ricambiare la carezza, seguendo il contorno del suo mento e scendendo verso la base del collo.
Quello che succede poi è impensabile. Con lentezza avvicina le sue labbra alle mie e vi depone un lieve bacio, leggero come se avesse posato una piuma. Le conseguenze per il mio equilibrio mentale sono devastanti. Come in un sogno vedo me stesso chinarmi su di lei imitando il suo gesto, soffermandomi sulle labbra giusto un po’ di più.
Perché sto incoraggiando questa follia?
Ho fatto sesso con donne bellissime e con una equivalente quantità di donne che non avrei toccato neanche con una pertica se non per esigenze di copione. Non mi è mai importato molto né delle prime, né delle seconde. Traggo maggiore soddisfazione da un piano ben riuscito o da un’uccisione eseguita a regola d’arte.
Mi sorride di nuovo e il fastidioso vuoto all’altezza del petto torna a bussare con prepotenza. Fissarla negli occhi è come partecipare a una seduta di ipnosi, non riesco a distogliere lo sguardo. Convinco me stesso che è solo desiderio, pura e semplice lussuria scatenata dall’innocenza di Danielle e dal fatto che si sta offrendo spontaneamente. Come persuasore sono sempre stato insuperabile.
La afferro per la nuca e la bacio, aprendo le sue labbra con la lingua e inebriandomi del suo sapore. Le sollevo la camicia da notte e il primo istinto è di strapparle gli slip, ma l’alieno che ha preso possesso del mio corpo non è d’accordo. Così finisco per sfilarglieli con lentezza assaporando il rossore che si diffonde sul suo viso, alla vista del quale la mia erezione tocca nuove vette.
Mentre io progetto sofisticati preliminari il mio corpo è di tutt’altra idea. Insinuo un ginocchio e la induco ad aprirsi come nel peggiore romanzo per adolescenti. Le afferro il viso e lei mi cattura di nuovo con quello sguardo da sirena. La penetro lentamente senza distogliere gli occhi dai suoi. È incredibile osservare la midriasi delle sue pupille, l’ansito del suo petto e l’accelerazione del battito.
Il demone chiede di uscire. Lo lascio libero nel momento stesso in cui entro completamente in lei. La sua espressione non cambia di fronte alla mia mutazione, i suoi occhi non mi abbandonano. Le afferro le braccia e le porto sopra le mie spalle, intrecciando le mie mani alle sue. Lei alza il bacino e si apre ancora di più. Inizio a muovermi piano, con affondi lenti, quasi pigri. Assaporo l’attrito dei nostri corpi, resi scivolosi dal sudore e dall’eccitazione.
Sono miei i gemiti che sento?
Danielle respira velocemente e i suoi occhi contengono un’unica supplica. Le sorrido, almeno credo, e stringo ancora di più le dita intrecciate alle sue, facendo ben attenzione a non esagerare. Sposto il bacino leggermente più in alto e cambio ritmo. Potrei definire convulso e senza più controllo il mio modo di possederla. Quando sento l’orgasmo salire tento di trattenerlo, lo giuro, mi blocco e infilo il viso nell’incavo tra il collo e la spalla.
Ci sono quasi riuscito quando lei mi alita nell’orecchio: «Damon, non ti fermare.»
Bastano poche spinte e lei si lascia andare completamente, inarcando la testa all’indietro. Nel suo viso leggo un piacere così intenso che perdo definitivamente il controllo. Sembra eterno, ogni volta che credo sia finita un nuovo spasmo mi riporta in alto.
Ora sono certo: i gemiti che sento sono i miei.
Crollo su di lei non perché sono senza fiato, ma perché mi sento come un circuito sovraccarico che è appena andato in tilt. Lei non sembra essere a disagio sotto il mio peso e mi accarezza la schiena. Sono consapevole che dovrei allontanarmi, alzarmi subito e andare a fare una doccia.
Non è che non posso, è che non voglio.
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