L’attesa è snervante, da quasi quattro ore sono seduta nella sala di smistamento del complesso denominato CSU, Centro per la Selezione Umana. Che cazzo di nome, starebbe bene sopra ai cancelli d’ingresso di Auschwitz, sotto la scritta ‘Arbeit macht frei’.
Con me ci sono almeno altre cinquanta persone. Anche se abbiamo varcato i confini dell’Alaska, tecnicamente, siamo ancora nella giurisdizione del Canada, almeno fino a quando non verremo selezionati e non ci sarà dato il permesso di entrare nei Territori. In realtà i Territori sono al di là della porta che stiamo fissando da ore. Non si sono degnati di comunicare l’orario previsto per l’inizio dei colloqui e quindi non abbiamo idea di che morte dovremo morire. Appena arrivata, mi hanno fatto compilare un format lungo quaranta pagine, nel quale si sono dimenticati di chiedermi solo la sequenza del DNA, per il resto hanno voluto sapere tutto, dall’età in cui ho avuto il ciclo al mio gusto di gelato preferito.
Nella stanza c’è un riscaldamento da schifo, appena sufficiente a non congelare, ma troppo basso per essere definito confortevole, fuori ci sono dodici gradi sotto zero e dentro non molti di più.
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