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Soli
Domenica
Ryons
L’alba è il momento della giornata che preferisco, soprattutto quando posso osservarla indisturbato, con in mano una tazza di caffè appena fatto. Quella di oggi sarebbe anche migliore se non preannunciasse l’inizio del guaio colossale nel quale siamo finiti.
Ieri sera, lasciato Digger, ero relativamente soddisfatto.
Avevamo i nomi, la dinamica dei fatti e tutti i dati che ci avrebbero consentito di arginare il pericolo, senza contare un piccolo, quanto fondamentale particolare: durante l’aggressione subita nel palazzo di Charlotte, i due russi avevano disattivato il sistema di videosorveglianza interna, quindi la polizia di New York non ha mai avuto in mano nessun elemento che mi potesse ricollegare al cadavere, ancora senza nome, ritrovato nell’atrio.
Sì, ieri sera, ero tutto sommato soddisfatto.
Avevo già in mente anche tutte le mosse successive. Messa al sicuro Charlotte, avrei operato su due fronti: persuasione psicologica con Abbott e negoziazione con Koslov. Al Senatore sarebbe bastata una visitina, magari notturna, durante la quale gli avrei fatto ascoltare la confessione di Digger che ho registrato e nella quale l’avvocato fa il suo nome; poi gli avrei fatto capire che potevo distruggerlo, a meno che non avesse usato la sua influenza per arginare il russo. A uno così, di solito, basta toccargli carriera e reputazione per portarlo dove si vuole. Nel frattempo, con Koslov mi sarei divertito molto di più, attuando una campagna di sabotaggio delle sue attività, grazie a tutte le strategie apprese nella Delta. Dopo le ingenti perdite e le pressioni di Abbott, Koslov avrebbe accettato di trattare e, alla fine, avrei avuto solo una richiesta: doveva dimenticarsi di Charlotte e di Randy, così io mi sarei scordato di lui.
Pur consapevole che in quel modo non avrei certo fatto giustizia – in un mondo ideale, uomini come Koslov, Abbott e Digger dovrebbero starsene dietro le sbarre o, meglio, non dovrebbero essere mai nati – avrei agito lo stesso così. In ogni caso il mio obiettivo prioritario era uno soltanto: non far correre nessun tipo di rischio a Charlotte e Randy, e ci sarei anche riuscito se quei cazzoni dell’fbi non fossero intervenuti a complicare le cose.
Non ci metteranno molto a ricostruire il tutto anche perché sanno già del coinvolgimento di Finnigan nella tortura del loro informatore; poco prima che Charlotte e Randy arrivassero qui, alla casa sicura, Jonas ci ha avvertito che quella gran testa di cazzo di Dick Van Leeuween, interrogato dagli agenti del Bureau, ha indicato Finnigan come responsabile. Poco importa che Dick non abbia fatto anche il mio nome, ben presto sospetteranno comunque che ero presente anch’io: la Black, come tutte le cmp, ha una struttura paramilitare e nessuno con il ruolo di Finnigan si sognerebbe mai di fare una cosa del genere senza un ordine diretto di un superiore. Come nessun contractor che si rispetti si sognerebbe mai di aprire bocca in merito a faccende interne: per ciò che ha fatto, Dick la pagherà cara, e per questo faccio molto affidamento su Sweet e su Jonas.
Questa faccenda è un fottuto casino che si complica di minuto in minuto e l’unica cosa che so per certo è che manterrò la Rossa al sicuro, costi quello che costi. Eh sì, mi rendo conto di essere fin troppo protettivo nei suoi confronti, ma quando ieri notte ha avuto quella crisi, e ho sentito il suo corpo tremare contro il mio, ho provato qualcosa che non sentivo da molto tempo e di certo non per un’altra persona: ho avuto paura.
E questo non va bene.
La paura per la tua incolumità personale, quando fai il mio mestiere, è come una vecchia amica: ti aiuta a mantenere il controllo, ti consente di non andare oltre certi confini prestabiliti, ti obbliga a programmare le tue azioni in modo più attento, ragionato. Ma quel tipo di paura che provo se penso che possa capitare qualcosa alla Rossa è di un genere in grado di mandare del tutto in tilt i miei sistemi interni, facendo venir meno il necessario distacco. Mi rende confuso e di conseguenza debole, e non va bene. Forse dovrei lasciarla nelle mani di qualcun altro, ci sono molti elementi validi alla Black, solo che… non posso, anzi non voglio.
Mentre riempio un’altra tazza di caffè e poi torno alla finestra, ripenso alla conversazione video avuta con Jonas meno di un’ora fa: non è molto contento della piega che hanno preso gli eventi e mi ha ricordato che, in quanto socio, anche se di minoranza, ho degli obblighi verso la Black Eagles e che la presenza dell’fbi potrebbe crearci dei seri problemi, anche a lungo termine, specie se dovessimo rifiutarci di collaborare. Pur sapendo che ha perfettamente ragione, ho ribattuto che non avrei lasciato nessuno dei due clienti nelle mani del Bureau, almeno non prima che questa dannata faccenda si fosse chiarita e i rischi per la loro vita venissero azzerati.
Jonas si è limitato a fissarmi per qualche secondo e poi mi ha chiesto quanto fossi coinvolto con la Davis. Sono stato zitto, limitandomi a un’occhiata decisa per fargli capire che stava superando dei precisi confini. Sono stato io a voler inserire nel regolamento della compagnia il divieto di instaurare relazioni sessuali o sentimentali con i clienti, sono quindi consapevole di tutte le possibili conseguenze, e lui lo sa.
Ora devo solo ricordarmelo anche io…
Al mio mutismo, Jonas ha scosso la testa con un mezzo sorriso e mi ha assicurato che ci avrebbe coperti il più a lungo possibile. A quel punto gli ho solo detto che, se le cose si fossero davvero messe male, mi sarei assunto ogni responsabilità; lui avrebbe dovuto addossare a me la colpa per qualsiasi capo di accusa mosso nei nostri confronti dall’fbi e avrebbe dovuto sostenere che avevo agito usando le risorse della Black a titolo personale, manipolando la situazione per i miei scopi e obbligando Finnigan a eseguire i miei ordini, in quanto suo diretto superiore. Come mi aspettavo non è stato molto d’accordo – mi ha mandato a fanculo almeno un paio di volte – ma sa benissimo di avere le mani legate e sa che questa potrebbe essere una soluzione ottimale, nel caso in cui l’fbi si mettesse di traverso agli affari della compagnia.
A un tratto percepisco dei passi quasi inudibili e so già che è Finnigan; mi si affianca, silenzioso come un fantasma.
«Il caffè è pronto» gli dico senza voltarmi.
Attendo che vada a riempirsi la tazza e mi raggiunga di nuovo prima di chiedergli: «A che punto è Taylor?»
«Ha quasi finito. Abbiamo la solita dotazione. Contanti, sim pulite, carte di credito e documenti nuovi.»
«Perfetto. Il tuo suv è a posto?»
«Sì.»
Ieri siamo arrivati qui con il mio pick-up, per cui un paio di ore fa Dawson, Littlefoot e Sweet sono tornati alla sede della compagnia, a New York; i primi due con lo specifico incarico di recuperare uno dei suv e delle armi “pesanti” per Finnigan e per me.
Il coinvolgimento di Sweet in questa storia, invece, è terminato: martedì partirà per l’Iraq insieme alla sua squadra e, conoscendolo, non vorrei essere nei panni di Dick, laggiù. Quasi mi dispiace per il sudafricano. Quasi.
«Finn, ma perché proprio la Louisiana?» domando voltandomi verso di lui.
Non so molto della sua vita precedente all’arruolamento e, anche se siamo buoni amici, a modo nostro beninteso, non siamo persone da “confidenze” – parlare del passato non è mai una cosa semplice per uomini come noi – però ho quasi la certezza che qualcosa lo abbia fatto allontanare dalla Louisiana, e molto in fretta. Dal suo fascicolo so che si è arruolato pochi giorni dopo la maggiore età, facendo domanda per entrare subito nei seal – cosa non rara, ma nemmeno usuale per uno così giovane – e so che a Shreveport ha una sorella, Ellie, e una nipote; di loro parla poco, ma da quel poco si vede che ci tiene.
Vedo che contrae la mandibola e prende un sorso di caffè prima di rispondere: «Ho un’ottima conoscenza del luogo. È un vantaggio se le cose dovessero mettersi male.»
«Capisco» replico, cercando di trovare una nota stonata, un indizio che mi permetta di intuire che c’è qualcosa che non va, ma non ne trovo. Qualunque sia la ragione per cui non parla mai del suo luogo d’origine, non sembra essere un motivo di preoccupazione per Finn, in ogni caso non per questa missione, quindi decido di essere positivo e di fidarmi di lui, come ho sempre fatto. «Almeno cerca di non far sparire Bennett in qualche palude» aggiungo ridacchiando.
«Ci proverò» risponde, con un lievissimo accenno di sorriso.
«Perfetto!» replico dandogli una pacca sul braccio. «Non è un soggetto facile.»
«Neanche la Davis lo è» ribatte.
«È solo provata dalla situazione» affermo convinto. «Ma ha risorse nascoste.»
Per alcuni istanti restiamo in silenzio, poi lui si volta lentamente verso di me. «Ryons,» inizia serio «non ci si deve far coinvolgere. Mai. Me lo hai insegnato tu.»
Porca puttana!
Mi sembra di essere diventato un libro aperto! Prima Jonas, ora Finn…
Lo guardo dritto negli occhi. Non voglio mentirgli, ma non posso nemmeno dirgli tutta la verità.
Fanculo, non so neanch’io qual è la verità!
«È complicato» mi limito a rispondere e poi torno a osservare il panorama fuori dalla finestra.
«Allora dovrai stare più attento del solito.»
Ha ragione, dovrò stare attento. È oramai appurato che la Rossa è in grado di farmi tenere dei comportamenti sopra le righe, per così dire, per cui dovrò mettere da parte tutto quello che non riguarda la buona riuscita della missione. Questa volta in particolare non possiamo rischiare, dobbiamo diventare invisibili, sparire per tutti, anche perché saremo soli. Nei prossimi giorni avrò alcuni contatti telefonici solo con Finnigan e Jonas, in orari prestabiliti. Chiaro che in caso di pericolo estremo o di informazioni della massima importanza, attueremo una diversa procedura, già pianificata. Forse sto esagerando, forse è eccessivo, in ogni caso ho imparato a mie spese che la prudenza non è mai troppa. Koslov si sentirà braccato, quindi diventerà più pericoloso, e l’fbi controllerà pure i peli del culo di ogni singolo dipendente della Black, visto che Jonas, per quanto ammanicato, potrà solo ritardare, ma non evitare di fornire le informazioni che gli chiederanno.
Uno stilista e un avvocato fiscalista sono l’ago della bilancia di una situazione che rischia di farsi via via più complicata: tutti li vogliono, anche se per motivi opposti. Pensavo non ci fosse più niente in grado di sorprendermi, ma evidentemente mi sbagliavo.
«Finn,» dico voltandomi di nuovo verso di lui «se hai anche solo il sentore che qualcosa non va, striscia nel buco più profondo che trovi con Bennett e non uscirci finché non si sono calmate le acque. Questa volta non stiamo dando la caccia ai cattivi. Questa volta siamo noi le prede.»
«Lo so» replica.
«Ok, dammi un quarto d’ora, poi vai a svegliare i nostri clienti. Intanto faccio quella telefonata.»
Annuisce e si dirige verso la zona notte, dopo aver appoggiato la tazza sul tavolo.
Mentre finisco il mio caffè, oramai freddo, visualizzo tutte le azioni che devo mettere in atto per far sì che le cose vadano come devono andare: pianificare è il principio base della riuscita di ogni missione.
“Se vuoi nasconderti, fallo tra la folla” diceva sempre uno dei miei istruttori alla Delta.
Lui ci spiegava come inserirci nei diversi contesti, come diventare solo uno fra i tanti per non essere individuati. Non ho mai dimenticato questo insegnamento che mi è tornato utile più volte, nella mia lunga vita di soldato. Quando ho riflettuto sul nostro possibile nascondiglio ho scelto Las Vegas esattamente per le motivazioni date a Charlotte: è caotica, consente l’anonimato, ma soprattutto la conosco e so come muovermi. A quel punto, il collegamento logico con Kymera è stato istantaneo. A suo tempo, quando l’abbiamo accettata come nuova cliente, abbiamo fatto le indagini di prassi e nel rapporto c’era scritto che vive in una specie di piccola fortezza in periferia, una villa dotata di sistemi di sicurezza all’avanguardia, abbastanza isolata, ma anche facilmente raggiungibile dal centro. Il luogo perfetto per tenere al sicuro Charlotte e sparire dai radar di eventuali inseguitori. Ho chiesto a Taylor di scoprire se Kymera fosse a Las Vegas in questo periodo e la fortuna, per una volta, ha deciso di aiutarci. Quando lui ha appurato che non solo non è in città, ma starà via molto a lungo, l’ho preso come un segno del destino.
Tiro fuori il biglietto da visita che mi ha dato la sera del suo concerto al Med-Ley e digito il numero di telefono.
Nemmeno un paio di squilli ed esordisce con un ironico: «Chiunque tu sia, se hai questo numero ti conosco per forza e per tua fortuna non hai interrotto niente.»
Sorrido automaticamente. «Kymera, sono Ryons. Non so se si ricorda di me, ero…»
«Risparmia il fiato, sai benissimo che mi ricordo di te e molto bene. Non sei uno di cui ci si dimentica» sbuffa.
«Devo chiederle un favore» dico, andando dritto al punto.
«Solo se mi dai del tu e la smetti con queste inutili formalità» replica. «In fin dei conti ti ho curato una ferita e mi sono seduta sulle tue ginocchia.»
«Ok» ridacchio. «Va bene, ti ringrazio. È un favore… particolare.»
Naturalmente non posso raccontarle la verità, in ogni caso optare per una mezza bugia è di solito la strategia vincente.
«Particolare? Sono già intrigata» commenta con una risata.
«Devo tenere per un certo periodo una cliente lontano da una situazione pericolosa. Mi chiedevo se potessi usare per un po’ casa tua, a Vegas, visto che sei impegnata con quel video in Australia fino alla fine dell’estate.»
Resta in silenzio per qualche istante, prima di riprendere a parlare: «Dovrei essere spaventata dal fatto che sai dove sono e per quanto tempo, ma dopo averti conosciuto posso affermare che mi sarei stupita del contrario. Che intendi con “situazione pericolosa”?»
«C’è un bastardo ossessionato da lei che la perseguita e voglio portarla via per un po’ da New York, mentre i miei colleghi trovano il modo di convincerlo a lasciarla in pace. Il tizio è uno potente, con agganci forti, per cui preferirei non ci fosse traccia del nostro passaggio. Per questo, anche se viaggiamo con nomi falsi, vorrei evitare gli alberghi.»
Mi sento io il bastardo a manipolarla toccando il tasto dello stalker, soprattutto dopo le minacce ricevute in passato, in ogni caso non ho altra scelta.
Resta in silenzio, riflettendo. Poi chiede in tono pratico: «Potrebbero esserci delle conseguenze per me, se vi ospito?»
«Assolutamente no, hai la mia parola.»
«E della tua parola mi fido, Ryons» ribatte. «Adesso non ho molto tempo per parlare, ti mando il nome e il numero del custode della villa con un messaggio. Lo avvertirò di modo che ti metta le chiavi a disposizione. Che nome devo usare per te?»
«Steven Stark» rispondo.
«Preferisco Ryons» commenta con tono suadente. «Al custode dirò solo che ci saranno due ospiti, lascerò a te il compito di “inventare la vostra copertura”.»
«Perfetto. Grazie.»
«Sai, Ryons, è davvero un peccato non poterti salutare di persona.»
«Ci saranno altre occasioni» replico e non solo per gentilezza. Quella ragazza è una combattente, l’ho capito nel momento stesso in cui l’ho guardata negli occhi, e io ammiro chi ha percorso la strada in salita e, a dispetto di tutto e tutti, è arrivato in cima.
«Lo spero proprio. Prenditi cura di te, Ryons, e goditi il soggiorno nella città del peccato.»
«Un’ultima cosa. Con me avrò anche un cane, un pastore tedesco. Potrebbe essere un problema?»
«Figurati!» esclama. «A meno che non scambi i miei divani per il dessert.»
«È ben addestrato, ti posso assicurare che non ci saranno danni.»
«Sarà meglio per te: come ben sai ho l’abitudine di dare un taglio netto a certe parti, quando mi disturbano, e se succede qualcosa alla mia casa potrebbe essere il turno delle tue» afferma e poi chiude la conversazione senza darmi il tempo di replicare o di ridere alla battuta.
Un minuto dopo mi arriva un messaggio con un nome e un numero di cellulare.
Ora ho la meta, i mezzi e la motivazione.
Tutto è pronto per la partenza.
E adesso arriva la parte difficile.
Charlotte
Qualcuno bussa alla porta e io emergo dallo strano dormiveglia nel quale ho passato la nottata. Non sono riuscita mai ad addormentarmi del tutto, nonostante le emozioni di ieri o, forse, proprio per quelle, e mi sento come se avessi nuotato per ore e ore senza interruzione.
Mi alzo, ancora intontita. I muscoli mi dolgono per la tensione accumulata e mi sento sporca, come se non mi lavassi da giorni, e in effetti l’ultima doccia l’ho fatta ieri mattina. Ho dormito vestita perché non abbiamo portato niente con noi e tutto ciò che attualmente possiedo lo ho addosso.
Quando apro la porta è la faccia di Finnigan, come sempre indecifrabile, ad accogliermi.
«Tra un’ora si parte» mi informa diretto. «Di là stiamo preparando qualcosa da mettere sotto i denti.»
«Ok» ribatto sulle mie.
Annuisce, prima di voltarmi le spalle e dirigersi verso la stanza a fianco, quella in cui c’è Randy.
Questo posto è più grande di quanto avessi pensato all’inizio: in aggiunta alla stanza nella quale Ryons ci ha parlato, ne ho contate altre cinque almeno, oltre a quella in cui ho trascorso la notte.
Vado nel bagno accanto alla mia camera e, una volta davanti allo specchio l’immagine che vedo mi fa sospirare di sconforto. Tento, senza successo, di districare i nodi dei capelli; una spazzola sembra essere diventata un’utopia in questa mia nuova vita. Rassegnata li pettino con le dita e mi lavo la faccia cercando di rendere umano il mio aspetto.
Quando entro in soggiorno Ryons sta versando del caffè in alcune tazze disposte sul tavolo e Finnigan sta cucinando.
«Ciao» mormoro, accomodandomi, mentre getto un’occhiata ai fornelli, dai quali si sprigiona un forte odore di uova e bacon.
«Tranquilla,» esordisce Ryons, facendomi una specie di sorriso «per te ho dei muffin. Sono confezionati, ma meglio di niente.»
«Grazie» replico e lascio che mi serva i dolci.
«Spero tu abbia riposato in queste poche ore, perché sarà un viaggio lungo e stancante quello che ci aspetta. Lungo la strada ci fermeremo per comprare vestiti, scarpe e altre cose» mi informa osservandomi con attenzione. Quasi sicuramente sta valutando il mio stato emotivo con il timore che ripeta la performance di ieri.
«Va bene» mi limito a dire, mentre prendo la tazza e inizio a sorseggiare il caffè.
In quel momento arriva Randy.
«Che buon odorino!» esclama, mentre si siede accanto a me. «Sono proprio affamato» aggiunge, strizzandomi l’occhio e sorridendo in quel modo unico che riesce a farti tornare il buonumore.
Ieri sera è stato dolcissimo e, dopo che ci siamo ritirati per dormire, è stato con me per un bel po’, raccontandomi barzellette e confortandomi.
Finnigan mette a tavola un grosso vassoio e si siede, cominciando a servirsi abbondanti porzioni di uova e bacon, e Ryons si accomoda e lo imita. Randy li osserva riempirsi i piatti fino all’orlo e iniziare a divorare il cibo, poi si volta verso di me con una smorfia e prende un muffin confezionato.
Per un po’ mangiamo tutti in silenzio, in un’atmosfera strana, carica di elettricità.
«E tutti gli altri?» chiede Randy posando la sua tazza di caffè.
«Stanno terminando gli ultimi preparativi per la nostra partenza» gli risponde Ryons.
«Ma verranno con noi, vero?» domanda ancora.
«No, saremo soli» replica Ryons, servendosi un’altra porzione dal vassoio.
«Soli?» gli fa eco Randy.
«Sì» conferma l’altro.
«Quindi… saremo soli-soli-soletti?» rincara Randy, a metà tra il meravigliato e il preoccupato.
Ryons posa la forchetta e lo fissa. «Ha qualche problema con il significato della parola soli, Bennett? Non ci sarà nessun altro. Nessuno.» Poi ricomincia a mangiare.
Randy lo osserva per qualche istante, poi si volta verso di me con un’espressione indifesa: vorrei rassicurarlo, tuttavia non saprei cosa dirgli.
In quel momento entrano Taylor e Dawson: neanche loro hanno un bell’aspetto, probabilmente hanno dormito anche meno di me. Dawson fa un cenno a Ryons che si alza subito e, mentre i due si allontanano, vedo che Dawson gli consegna un cellulare e una grossa busta.
Taylor si avvicina al tavolo e, accanto alla mia tazza, poggia una carta di identità con la mia foto; la osservo con curiosità e noto che è la stessa che c’è nel mio vero documento.
«Ora il suo nome è Cassandra Rowling» mi dice picchiettando con il dito sul nome. «Ha trentatré anni ed è una consulente informatica. È nata in Kansas, ma risiede a New York e per fortuna ha già perso quell’orribile accento. Impari tutto e stia attenta a non sbagliare.»
«Rowling?» interviene Randy. «Oh, ma allora siamo a posto! Tiriamo fuori le bacchette e tutto si risolverà, senza che i babbani neanche se ne accorgano.»
Taylor ridacchia e allunga un documento verso di lui. «Il suo nome, invece, è Cameron Oswald, ha trentacinque anni e fa il cameriere.»
«Wooow!» esclama Randy sarcastico, afferrandolo e dandogli un’occhiata critica. «Sono vecchio, ho un nome imbecille e un cognome da assassino. Cosa posso volere di più?»
«Restare in vita, magari?» interviene gelido Finnigan.
Randy lo guarda storto, posa il documento sbattendolo sul tavolo e torna a rivolgersi a Taylor. «Come avete fatto ad avere dei documenti falsi in una manciata di ore?»
«Semplice» interviene Taylor accomodandosi. «Non sono falsi. La matrice proviene direttamente dalla stamperia governativa e dopo un piccolo intervento informatico voi esistete davvero» spiega iniziando a riempirsi anche lui un piatto. «Chiunque dovesse fare un controllo troverebbe tutto quello che serve, da eventuali multe al profilo Linkedin. Modestamente, in questo sono un maestro.»
«Però!» esclama Randy. Poi si volta verso Finnigan con un sorrisino. «E tu come ti chiamerai?»
«Jack» risponde controvoglia l’interpellato.
«E Ryons, suppongo, sarà John» lo stuzzica il mio amico.
«Non ti riguarda» replica Finnigan.
Il loro scambio di battute al vetriolo è interrotto da Ryons che, tornando al tavolo con a fianco Dawson, taglia corto, con un: «La ricreazione è finita. Partiamo tra trenta minuti.»
«Ho il tempo di una doccia?» chiede Randy.
«Partiamo tra trenta minuti» ribatte Finnigan scoccandogli un’occhiata gelida.
«Ok, ok, me li farò bastare» dice il mio compagno di sventura, sbuffando e alzandosi.
«Vengo con te» mormoro seguendolo.
L’idea della doccia non è male, anche se poi dovrò rimettermi i vestiti sporchi. Per fortuna sono almeno comodi visto che Ryons, quando mi ha portato il borsone al campo, non ha di certo scelto completi da lavoro.
Prima di uscire gli getto un’altra occhiata e lo vedo intento a parlottare con Taylor; ho finalmente raggiunto l’intima consapevolezza che ciò che sta succedendo è reale e che da questo momento in poi saremo davvero soli.
Io e lui.
Ryons
Il viaggio non è iniziato nel migliore dei modi, ma non mi aspettavo niente di diverso.
Charlotte è salita sul pick-up, ha fatto qualche carezza a Regina, si è allacciata la cintura e si è chiusa in un ostinato mutismo. E, dopo circa un’ottantina di chilometri, non ha ancora detto una sola parola.
Non che mi stia lamentando, beninteso, visto che quando tace di solito è più piacevole, per cui potrei anche rassegnarmi a passare gli oltre 4.000 chilometri che ci separano da Las Vegas solo in compagnia della musica. Ora sto ascoltando il meglio di Thorogood & The Destroyers, nello specifico Bad to the Bone. La potenza delle note tiene a bada la brutta sensazione determinata dal fatto che stiamo scappando per andare a nasconderci, e questa realtà non può essere cambiata da nessun pensiero positivo. Dovrò rispolverare l’arte della pazienza e della strategia e concentrarmi solo sul tenere al sicuro la Rossa, cosa che ha come diretta conseguenza rovinare i piani di Koslov e, di rimando, darmi un’immensa soddisfazione.
Siamo appena entrati in Pennsylvania e, secondo il navigatore satellitare, vicino alla I-80 c’è un grosso centro commerciale dall’altisonante nome di The Crossings Premium Outlets, dove potremo trovare tutto quello che ci occorre per il viaggio e, spero, anche un buon caffè perché ne ho un disperato bisogno. Mi immetto sulla bretella per uscire dall’interstatale, raggiungo il centro commerciale e solo quando termino la manovra di parcheggio la Rossa si riscuote.
Si guarda intorno e poi si volta verso di me chiedendo: «Perché ci siamo fermati?»
«Come ti ho detto stamattina, ci servono dei vestiti, cibo per Regina e altre cose per il viaggio. Qui possiamo comprare tutto. Una volta dentro, stammi sempre vicina.» Sto per scendere dall’auto quando mi ricordo di una cosa. «Rossa? Il mio nome adesso è Steven Stark, ricordatelo.»
«Ok» replica.
«Bene, e tu invece sei Cas…»
«Cassandra Rowling, lo so!» mi interrompe secca, sganciando la cintura.
«Perfetto» continuo slacciandola a mia volta. «Siamo una coppia e stiamo viaggiando per piacere, ok?»
Lei fa un piccolo cenno affermativo con la testa.
«Rossa, le cose non cambiano, stessa procedura di sempre» la informo. «Scendo prima io, controllo che tutto sia nella norma e poi ti faccio uscire dal pick-up. Intesi?»
«Sì» sbuffa, voltando la testa verso il finestrino.
Io esco e faccio salire Regina nel cassone di dietro. So che odia stare da sola, se è fuori casa, ma non posso farne a meno e proprio per questo ho scelto un parcheggio all’ombra; non conosco nello specifico la legislazione della Pennsylvania sull’ingresso degli animali nei luoghi pubblici, perciò nel dubbio meglio lasciarla qui. Le preparo la ciotola dell’acqua e, dopo averle fatto qualche coccola, le ordino di stare buona. Mi guarda con occhi tristi, ma si siede e obbedisce.
Faccio scendere la Rossa e, fianco a fianco, ci dirigiamo all’ingresso, dove la guardia giurata in servizio ci guarda attenta. So bene cosa vede: un uomo con la barba lunga, in deprivazione da sonno, il cui volto presenta delle ecchimosi recenti e un cerotto sulla guancia, senza contare l’umore non solare che rende il tutto ancor più accentuato, quindi attiva subito lo scanner “tipi sospetti”. Sollevo il braccio e lo metto intorno alle spalle di Charlotte, attirandola a me, e lei si irrigidisce subito.
«Reggimi il gioco» le bisbiglio in un orecchio. «Guardia a ore nove. No, non voltarti» le intimo quando vedo che sta per girare la testa. «Rilassati e sorridi.»
La sento sospirare, ma poi mi passa il braccio sinistro dietro la schiena e si aggrappa alla mia spalla: ora siamo solo una coppia che va a farsi un giro per i negozi e l’uomo si volta a guardare da un’altra parte, classificandoci come innocui.
«Steven, dobbiamo andare avanti ancora per molto con questa sceneggiata?» chiede dopo una decina di metri, usando il mio nome di copertura con tono ironico.
La cosa un po’ mi infastidisce, anche se posso capire il suo stato d’animo; in assenza di un nemico concreto, la mente cerca sempre un colpevole per i propri stati di disagio e io sono quello più a portata di mano. È un meccanismo che conosco bene.
La sciolgo dall’abbraccio e l’afferro per un gomito, guidandola verso la fila di carrelli. Ne prendo uno e le dico: «Prima di tutto pensiamo ai vestiti. Ci servono abiti sportivi, comodi e scarpe. Poi passiamo all’intimo e ai prodotti per l’igiene del corpo. Infine dobbiamo pensare anche a Regina: ci servono cibo e un kit per i suoi escrementi. Tempo stimato per l’operazione: un’ora. Domande?»
«Nossignore» risponde sarcastica.
«Benissimo. Procediamo.»
La trascino prima alla Levi’s. Non appena mettiamo piede all’interno, la commessa ci si avvicina e dà il via al solito chiacchiericcio rituale per venderci anche quello che non ci serve.
Casca male.
La blocco e sillabo: «Comodi. Classici. Subito. Grazie.»
Dopo che le comunichiamo le taglie, rassegnata va verso uno scaffale e ritorna con due paia di jeans che ci porge.
«Li vuoi provare?» chiedo a Charlotte che sta controllando i suoi.
«Non è necessario» ribatte. «Sono della mia taglia e la lunghezza mi sembra perfetta.»
Apprezzo la Rossa anche per questo: ha un innegabile e invidiabile pragmatismo. La commessa, invece, la guarda come se fosse un’aliena.
«Ne vogliamo due paia a testa» ordino alla ragazza. «Nessuna variazione di colore o modello. Pago in contanti.»
Fa quello che le chiedo, saldo il conto e mentre lasciamo il negozio ci dice: «Grazie e tornate a trovarci al più presto.»
Poi tocca al resto dell’abbigliamento: alcune T-shirt e un paio di felpe a testa; delle camicie e due blazer per me; una borsetta e un portafogli per la Rossa. Nel negozio sportivo a fianco acquistiamo tute e scarpe da ginnastica, queste ultime le uniche che proviamo, e lì compriamo anche due borsoni per infilarci dentro il vestiario.
Per l’intimo entriamo in una boutique sull’altro lato. Lungi da me l’idea di aiutarla, per cui lascio che se la sbrighi da sola, allontanandomi e afferrando al volo una serie di boxer della mia misura, calze e alcune magliette intime. Odio fare shopping: mi ricorda il tedio provato quando la Black aveva appena aperto e, per un certo periodo, dovetti svolgere alcuni incarichi di protezione per viziate figlie di papà, la cui attività principale consisteva nell’acquisto compulsivo, quando non tentavano di portarmi a letto. In ogni caso, Charlotte è passabile per essere una femmina, almeno fino a quando non arriva il momento di pensare all’igiene personale: non vuole sentire ragioni e mi trascina in farmacia, perché lei compra “solo prodotti che garantiscono certi standard”.
La lascio fare visto che almeno sta mostrando un barlume di interesse ed è sempre meglio dell’apatia nella quale sembrava caduta nelle ultime ore. Ognuno di noi ha un personale modo di affrontare i traumi; ricordo un soldato, uno della Delta come me, che la sera, una volta al sicuro, si metteva a intagliare piccole figure con il legno che a volte trovava sul posto, spesso sforzando gli occhi alla pallida luce delle lampade da campo. Lo prendevamo in giro, ma tutti sapevamo e capivamo perché lo facesse: era il suo modo di combattere i mostri nella sua testa e far calare la tensione, in fondo non molto diverso da tanti altri.
Mentre rifletto, osservo Charlotte che parla con la farmacista e sento che stanno chiacchierando di integratori, Omega3 e radicali liberi. Mi guardo intorno, come mia abitudine, per monitorare l’ambiente, quando la mia attenzione è catturata dall’espositore colorato alla mia destra, dove, in bella mostra, c’è una vasta scelta di profilattici, delle diverse marche e dalle molteplici caratteristiche.
La mente umana è davvero strana: fino a un secondo prima non mi era passata nemmeno per l’anticamera del cervello l’idea del sesso. Certo, ho fantasticato parecchio sulla Rossa – specie nei giorni di convivenza forzata nel mio appartamento, altrimenti non sarei mai finito con la faccia tra le sue cosce su quelle scale – solo che, con tutto quello che è successo in seguito, ero troppo impegnato a togliermi dai casini e il sesso era rimasto come un rumore di fondo, presente, ma non immediatamente disponibile alla coscienza.
Ora, invece, decido di fare proprio l’unica cosa che non dovrei fare.
Alzo lo sguardo e incrocio quello della farmacista; deve essere sui quarant’anni e dalla posizione in cui si trova può osservarmi, continuando a parlare tranquillamente con Charlotte. Sono abituato a occhiate come quella che mi sta riservando. Per strani motivi più sono messo male, con la barba di un paio di giorni, le occhiaie e i vestiti stile militare, più attiro un certo tipo di attenzione femminile. Ne approfitto immediatamente: afferro una scatola di preservativi e, stando ben attento a non farmi scoprire da Charlotte, faccio segno alla donna di metterla sul conto, prima di farla scivolare nella tasca dei pantaloni. Lei sorride e annuisce impercettibilmente.
Poi afferro a caso un docciashampoo, dei rasoi e una crema da barba. Infine, non può mancare una confezione di Tylenol: quello stronzo russo – che marcisca all’inferno prima o poi! – mi ha lasciato un ricordino fastidioso. Prendo anche una confezione di dentifricio e mi avvicino per pagare.
Usciti dalla farmacia, dopo aver acquistato anche i prodotti per Regina, compro al volo un caffè e finalmente assumo la dose adeguata di caffeina. Ci riforniamo anche di barrette proteiche, cioccolata e molta acqua e, prima di andarcene dal centro commerciale, chiedo a Charlotte se vuole fermarsi al ristorante interno o se ha bisogno di qualcos’altro. È già provata e non ha senso affrontare questo viaggio accumulando disagi non necessari. Quando mi risponde che sta bene così, mi guarda anche con una certa sorpresa: non deve essere molto abituata ad avere qualcuno che si prenda cura di lei.
Una volta alla macchina, Regina si comporta come se non ci vedesse da anni. La faccio salire di nuovo nell’abitacolo e lei si sdraia contenta sul sedile posteriore.
Faccio accomodare Charlotte e poi divido gli acquisti nei rispettivi borsoni che sistemo dietro ai sedili anteriori. Dopo aver riportato il carrello nell’apposita pensilina, ritorno in macchina, accendo il motore e, mentre faccio retromarcia, la Rossa si allaccia la cintura e mi chiede: «Quali sono i programmi?»
«Viaggiare fino a stasera e poi trovare un motel per dormire. Poi viaggiare ancora. Ci aspetta molta strada prima di arrivare.»
In realtà, in questo preciso momento vorrei solo un letto su cui scoparla per ore e sentirla gridare fino a che non resta senza voce.
Ma non credo che sarebbe contenta di saperlo.
Charlotte
Fisso la strada che stiamo percorrendo da ore e inarco di nuovo la mia povera schiena anchilosata: mi sembra di esser diventata un tutt’uno con questo sedile. Ci siamo fermati un paio di volte per sgranchirci le gambe e per dare a Regina l’opportunità di bere e di provvedere alle sue necessità, come noi alle nostre. Ryons è dolcissimo con lei e attento a ogni sua esigenza: durante una delle soste l’ha fatta correre e giocare, sottoponendosi paziente ai suoi assalti affettuosi corredati di umide leccate.
È stato molto premuroso anche con me, cosa che mi ha invogliata a interagire con lui, e infatti abbiamo parlato del più e del meno, scambiandoci opinioni e scoprendo un poco le reciproche visioni del mondo. È strano… nei giorni della nostra convivenza ho sempre pensato a lui come a una persona rigida, intransigente e invece ho scoperto un uomo capace di ascoltare, di condividere e di ridere di se stesso, se necessario. In pratica, l’ho conosciuto più in queste poche ore che nei dieci giorni trascorsi a casa sua.
Un’imprevista e gradita sorpresa.
Non appena la luce inizia a cambiare, si volta e, sorridendomi, mi dice: «Tra poco ci fermiamo. Siamo appena entrati nell’Indiana e, per il navigatore, tra una ventina di chilometri, a South Bend, dovrebbe esserci un motel.»
Secondo i miei calcoli, oggi ha guidato ininterrottamente per quasi un migliaio di chilometri e la scorsa notte non deve aver dormito tanto, forse non ha proprio chiuso occhio, eppure ha sempre la solita aria attenta e concentrata, e sono sicura che non gli sfugge niente.
«Ok» ribatto mettendomi di nuovo comoda.
Dopo una decina di minuti mette la freccia e prende uno svincolo all’ingresso del quale incrociamo un cartello con su scritto: Motel 6, South Bend. Poco dopo parcheggiamo di fronte a una struttura di un bianco sporco, con un enorme 6 disegnato in rosso sulla facciata.
Non appena Ryons mi dà l’ok, scendo dalla macchina, mentre lui si carica in spalle i due borsoni più un altro che non so da dove sia sbucato, tuttavia sono troppo stanca per indagare. Declina la mia offerta di aiuto e si avvia verso il motel, con Regina che trotterella dietro di lui, e a me non resta che seguirli.
Alla reception c’è un ragazzo sui venticinque anni che ci sorride cordiale. «Benvenuti al Motel 6. Che cosa posso fare per voi?»
«Vorremmo una camera per la notte» dice Ryons.
«Letti separati» aggiungo io.
Il ragazzo sorride, Ryons no.
«Posso darvi una camera con un letto matrimoniale, più uno a una piazza e mezza. Sono 64 dollari, con il cane 10 dollari in più, pagamento anticipato» risponde gentilmente il portiere.
«Va bene» conferma Ryons.
«Contanti o carta?» domanda il ragazzo, digitando sulla tastiera di uno dei due computer presenti.
«Contanti» ribatte Ryons allungandogli 100 dollari.
Il ragazzo li prende e gli dà il resto, insieme a una chiave. «Mi servono i vostri documenti.»
Allungo a Ryons il mio, nuovo di zecca, e lui glielo consegna insieme al suo e in pochi minuti veniamo registrati.
«Signori, purtroppo, non abbiamo il servizio ristorante,» ci comunica il giovane restituendoci le carte di identità «ma a pochi chilometri c’è una tavola calda nella quale la cucina è passabile. Altrimenti, posso farvi avere qualcosa avanzato dalla colazione di stamattina» aggiunge ed è chiaro che sta avendo pietà della nostra aria distrutta.
Io ho solo voglia di farmi una doccia e dormire fino a domani mattina e spero proprio che Ryons sia del mio stesso avviso.
«Va bene quello che è rimasto dalla colazione, grazie» risponde lui, interpretando i miei pensieri.
«Ok, allora potete venire e ritirare il cibo tra una mezz’ora» ci informa il ragazzo con un sorriso.
Ringraziamo ancora e ci avviamo verso la stanza. Regina ci segue, odorando tutto quello che incrociamo nel percorso.
Seguiamo le indicazioni e saliamo da una scala esterna. Noto che ogni camera si affaccia su un balcone con una ringhiera verde, lo stesso colore anonimo delle porte.
Entriamo nella nostra che, a prima vista, non sembra tanto male. Ci sono un letto matrimoniale e un altro a una piazza e mezza, entrambi con dei copriletto colorati; una piccola scrivania con sedia e una consolle con un televisore completano l’arredamento. Mi dirigo subito verso il bagno: tutt’altro che ampio, è dotato del minimo indispensabile, tuttavia sembra pulito.
Meno male…
Ryons posa due borsoni a terra, vicino al letto singolo, e mette il mio su quello matrimoniale. «Rossa, il letto grande è tuo.»
«Sei… gentile» mormoro.
«Non è una questione di gentilezza, è quello più lontano dall’entrata e dal balcone» borbotta, senza guardarmi, mentre getta un’occhiata fuori dalla finestra. «Io vado a recuperare il cibo di Regina dal pick-up e la porto con me per i suoi bisogni» aggiunge. «Tu fatti la doccia per prima, almeno sarai sicura di avere l’acqua calda.»
«Grazie…»
«Prego» ribatte secco, prima di uscire seguito da Regina.
Mentre sento chiudere la porta a chiave, scuoto la testa: si comporta come se essere ringraziato lo innervosisse.
Dopo aver preso un cambio intimo e il pigiama di cotone leggero a quadrettoni scozzesi – l’ho adorato subito, non appena l’ho visto in quel negozio di intimo del centro commerciale – entro in bagno e mi infilo sotto la doccia. L’acqua calda è così piacevole che resto sotto il getto molto a lungo, lasciandola semplicemente scorrere su di me. Mi lavo prendendomela comoda con i prodotti acquistati oggi e quando esco mi tampono con un telo; poi mi pettino i capelli e li asciugo con il phon a muro. Anche se sono stanca, decido di coccolarmi un po’ e mi massaggio dappertutto con una crema alla mela verde che mi ha consigliato la farmacista.
Ora sono di nuovo io, penso, guardandomi critica allo specchio. Non mi soffermo quasi mai sul mio aspetto: so di essere molto gradevole, almeno a giudicare dalle reazioni degli uomini, tuttavia non ho mai puntato su questo per emergere. Mi rendo conto di aver spesso sacrificato la mia femminilità, considerandola il prezzo da pagare per essere presa sul serio nel mondo prettamente maschile nel quale vivo e lavoro, e non mi ha mai pesato… finora.
Chissà come mi vede Ryons?
Appena formulo il pensiero lo ricaccio, stizzita, da dove è venuto. Sono troppo grande per credere alle favole e, forse, non ci ho mai creduto neanche da bambina. È impensabile che un uomo come lui sia realmente attratto da una come me, il suo interesse nei miei confronti è meramente fisico. Lui è così vivo, così istintuale, lo si percepisce anche se tenta di essere controllato: Ryons è lava e io sono ghiaccio, e quando due elementi così diversi si incontrano non succede mai niente di positivo.
Quando esco dal bagno, lui non c’è, tuttavia Regina è posizionata vicino alla porta; accanto a lei, ci sono una ciotola vuota e una colma di acqua.
Mi chino ad accarezzarla e lei mi lecca la mano. «Mi stai proteggendo, piccola?»
Un uggiolio felice sottolinea che le mie attenzioni sono gradite.
Mi siedo sul letto e, quasi in automatico, cerco con lo sguardo il cellulare con l’intento di controllare i messaggi, restando puntualmente delusa. Mi sento nuda senza e il non poter comunicare con il mondo inizia a pesarmi davvero tanto. Vorrei anche sapere come sta Randy: sono preoccupata, tuttavia anche consapevole che almeno lui, nella tragicità della situazione, ha ottenuto quello che voleva, ovvero stare con Finnigan senza interferenze.
Una decina di minuti dopo sento lo scatto della serratura e compare Ryons con un vassoio dal quale si sprigiona un buon odore di caffè e di cibo.
Lo appoggia sulla scrivania. «La signora è servita. Mi sono assicurato che fosse tutto compatibile con le tue scelte alimentari, per cui non devi preoccuparti. Inizia pure a mangiare.»
«Grazie» mi limito a dire, ancora una volta stupita da tutte le sue premure.
«E a proposito, carino il pigiama» aggiunge strizzandomi l’occhio, mentre chiude a chiave la porta d’ingresso. «Il tartan è molto simile a quello del mio clan di origine.»
Lo fisso per capire se lo sta dicendo per prendermi in giro, tuttavia vedo solo un aperto sorriso che mi spiazza. Per darmi un contegno inizio a mangiare, mentre lui afferra il suo borsone e si dirige in bagno.
Un quarto d’ora dopo esce con addosso solo dei boxer e una T-shirt bianca. Ha nella mano destra la pistola che gli ho visto sempre indossare al fianco, una Glock, e nella sinistra anche una più piccola, a tamburo, che invece non ho mai visto e che di primo acchito mi pare sia una Smith & Wesson.
Quanto vorrei la mia…
Quando ero a Boston, fu Arthur a portarmi per la prima volta al poligono e a incoraggiarmi a imparare a sparare. Ricordo ancora quello che mi disse quando mi regalò la Steyr M9: «Vedi, Charlotte, mia cara, non sono le armi a essere il male, come sostengono in molti. Dietro una pistola c’è sempre una persona, quindi è il modo in cui quella persona la usa che fa la differenza.»
All’inizio non ero molto convinta e lo feci solo per compiacerlo e avvicinarmi a lui ancora di più. In seguito, quando presi dimestichezza, divenne una vera e propria valvola di sfogo: precisione, controllo e calma erano le tre parole chiave utili per colpire il bersaglio e mi aiutavano a eliminare la tensione. Da allora, averla in borsetta, mi ha sempre dato un senso di sicurezza, la percezione di potermela cavare da sola in ogni possibile situazione, anche quelle più difficili; forse, se al momento dell’aggressione nell’atrio di casa mia l’avessi avuta, adesso mi sentirei meno vittima. Tuttavia, sono consapevole che un’arma da fuoco ha il potere di dare la morte e sono anche profondamente convinta che tale potere vada usato solamente se è in pericolo la propria vita o la vita di coloro che noi amiamo. Questo mi riporta a un pensiero che mi gira in testa dall’altra sera: comunque la metta, per quanto a volte Ryons possa apparirmi irritante, maleducato e poco galante, per quanto il suo modo di fare sia il più lontano possibile da tutto ciò che apprezzo e al quale sono abituata, lui ha ucciso un uomo per salvare me. È un dato di fatto, inconfutabile, e questo mi fa sentire… strana.
Lo guardo di nuovo, mentre controlla le pistole e le appoggia sul comodino di fianco al suo letto, insieme a un caricatore per la Glock. I muscoli della spalla sono delineati e ben visibili sotto la maglietta aderente e i boxer, fin troppo corti, mettono in evidenza tutto quello che contengono.
Non appena mi rendo conto della direzione che ha preso la mia mente, non posso fare a meno di sbottare infastidita: «Sei allergico ai pigiami?»
«Non li uso e lo sai» replica senza guardarmi. «Abbiamo vissuto assieme e hai già visto come dormo.» Poi si volta. «E anche io ho visto come dormi tu» aggiunge percorrendo lentamente con gli occhi il mio corpo.
Sbuffo, lo ignoro e vado in bagno a lavarmi i denti. Quando torno, ha iniziato a mangiare: lo sguardo perso fuori dalla finestra sembra immerso in chissà quali pensieri, anche se sono sicura che in realtà è sempre attentissimo.
Mi infilo diretta sotto le coperte, troppo spossata per instaurare una qualsivoglia conversazione: in vita mia non ho mai desiderato così tanto dormire. Con la coda dell’occhio, tuttavia, continuo a osservarlo compiere gesti precisi e meticolosi: una volta finito il pasto, si alza e butta gli avanzi in un sacchetto a cui fa due nodi; riempie d’acqua la ciotola di Regina e le fa due carezze; poi va alla finestra dove resta qualche secondo, scrutando attentamente l’esterno, e infine si dirige in bagno, portandosi dietro la Glock.
Pochi minuti e torna: posa l’arma, getta ancora uno sguardo fuori dalla finestra, tira le tende e ricontrolla che la serratura sia chiusa. Poi prende uno scendiletto e lo posiziona di fronte all’ingresso. Fa un cenno a Regina che ci si sdraia sopra e le dice: «Fai la guardia per me, dolcezza, ok?»
Infine, si infila sotto le coperte e spegne la luce.
Il nostro “romantico viaggio” è davvero iniziato e io vorrei solo poter andare a leggere la pagina finale, come nei libri, penso chiudendo gli occhi.
Sto controllando la dichiarazione dei redditi di un mio cliente in ufficio, quando la porta si spalanca ed entra Sean.
È lui, ma il suo viso sembra diverso, ha un che di animalesco e ha perso la sua solita compostezza.
«Charlotte, sai perché sono qui, vero?» chiede tirando fuori una pistola e puntandomela addosso.
Paralizzata dalla paura e dalla sorpresa, non riesco a muovermi.
Poi alle sue spalle si materializza Ryons.
Il mio sollievo è immediato, perché so che adesso lui mi salverà.
«Ha fatto la cosa giusta» gli dice il mio capo sorridendo, mentre Ryons gli si affianca, inespressivo. «Non avevate nessuna possibilità di sfuggirci. I soldi le verranno accreditati quanto prima» aggiunge passandogli la pistola.
Ryons la prende e poi la punta verso di me.
«Nooooo!» urlo con tutto il fiato. «Non farlo, ti prego» lo supplico.
Lui sorride. «Nella vita siamo soli, Rossa. Affronta il tuo fallimento.»
Poi preme il grilletto…
Mi alzo di scatto a sedere nel buio, rantolando in cerca d’aria.
Non respiro! Non respiro!
Un secondo dopo, due forti braccia mi stringono e due mani calde mi accarezzano la schiena.
«Rossa, è solo un incubo» sussurra la voce di Ryons nell’oscurità. «Calmati» aggiunge mentre accende l’abat-jour.
Sento Regina che uggiola e non riesco a trattenere un singhiozzo. Le lacrime cominciano a scivolare copiose lungo le guance e Ryons si scosta un poco, interrompendo la loro discesa con le dita, in un gesto tenero e delicato del quale non lo credevo capace.
Tiro su con il naso. «Era… era tutto così reale» mormoro. «Sean… ti passava una pistola e tu…» deglutisco e non riesco ad andare avanti.
«Io, cosa?» chiede continuando ad accarezzarmi con delicatezza.
«Tu mi sparavi perché lui ti aveva pagato» concludo in un sussurro.
Sospira e mi fa stendere, coprendomi con il leggero copriletto e spegnendo la luce.
Si mette al mio fianco e solo quando mi fa appoggiare la testa sulla sua spalla mi accorgo che è a petto nudo.
«Rossa, sotto stress, la mente fa brutti scherzi» sussurra accarezzandomi il braccio. «I sogni ci presentano una realtà distorta e spesso sono lo specchio delle nostre paure.»
Alzo il viso verso di lui, osservandolo alla flebile luce dei lampioni del parcheggio, che filtra attraverso le tende della finestra. «Ryons, io non penso che tu possa tradirmi» gli dico sincera.
«Ti credo» replica e per qualche istante restiamo in silenzio. Poi aggiunge: «Rossa, forse hai solo paura di essere abbandonata, ancora. Come ha fatto tuo padre.»
Mi irrigidisco subito, in automatico.
Oh mayday, ma…?
Chiaro, lo sa! Deve avere un fascicolo su di me, come minimo.
«Rossa, non ti mettere sulla difensiva» dice appoggiando la fronte contro la mia. «Ci sono cose che ci rendono vulnerabili, ma non per questo le dobbiamo evitare. Così diamo loro più potere.»
Tento di rilassarmi perché so che ha ragione. Solo che non è nella posizione per farmi la predica: in materia di segreti e difese ne sa di certo più di me.
«E tu, soldatino, che cosa vedi quando chiudi gli occhi?» sussurro.
All’inizio credo che non mi risponderà, in linea con tutto quello che lui è, che rappresenta. Poi, invece, dice: «Vedo gli errori commessi, i morti che mi sono lasciato alle spalle e penso a tutto quello che avrei potuto fare per evitarli.»
In questo momento mi sta mostrando la parte più fragile di sé, mettendomi nelle condizioni di entrare, anche se solo di poco, nel suo mondo. E allora, senza premeditazione, sfioro le sue labbra con le mie, in un bacio lieve, pieno di timore, non preparata a quello che segue.
In un istante, Ryons mi gira, intrappolandomi sul materasso, e la sua bocca è sulla mia, esigente e dura. Tutta la tenerezza che c’era tra noi si disfa in rivoli di desiderio. Non posso che seguire la sua passione, perché mi accorgo che è anche la mia.
«Rossa,» mormora con voce roca, staccandosi «hai un’idea dell’effetto che mi fai?»
La classifico come una domanda retorica e non rispondo. Non a parole almeno e mi limito ad accarezzargli una guancia. Era il segnale che aspettava o forse si sarebbe preso tutto comunque: non lo saprò mai.
Mi alza la maglietta del pigiama e la sua bocca sul mio seno è qualcosa difficile da descrivere e, in un ultimo barlume di razionalità, mi dico che non dovrei permetterglielo, che tutto questo non porterà a niente di buono per nessuno di noi due. Quando inizia a succhiare gli afferro la testa e vorrei allontanarlo, tuttavia gli stringo i capelli e lo trattengo, arrendendomi a qualcosa che non posso più controllare. Lui si prende un tempo che sembra infinito e le sue mani sono dappertutto, esigendo una resa senza condizioni.
Sono oramai ai limiti quando lo sento mormorare: «Lascia fare a me, Rossa. Lasciami terminare quello che avevo iniziato. Vuoi?»
La sua voce è suadente, tentatrice come quella di un demone e infine cedo, lasciandogli via libera. Mormoro un «sì» quasi inudibile e mi concedo questo momento, consapevole che forse sto imboccando una strada di non ritorno.
Ryons si mette in ginocchio sul materasso, davanti a me, scostando del tutto il copriletto, e con un solo movimento mi sfila i pantaloni e gli slip, gettandoli lontano; poi con le mani sulle mie ginocchia mi fa spalancare le cosce e resta qualche istante a guardarmi. So che cosa succederà e proprio per questo non riesco a evitare un ansito di sorpresa; chiudo gli occhi e poi c’è solo la sua bocca.
Questa volta non si trattiene e con labbra, denti e dita mi porta in una dimensione che non pensavo nemmeno esistesse. Raggiungo un vero orgasmo, uno di quelli senza freni, che non ho mai sperimentato e di fronte al quale tutte le tiepide sensazioni precedenti impallidiscono e vengono dimenticate. È la mia prima volta con un uomo; con Donald non ero mai stata capace di lasciarmi andare e di solito ero io che raggiungevo il piacere da sola, a fatica, dopo che lui era andato via.
Mentre ancora respiro affannosamente, Ryons risale piano, fino al mio collo, lasciando una calda scia di baci durante il cammino; poi nasconde la faccia tra i miei capelli e resta così, cullandomi e accogliendo i miei ultimi tremiti, con la sua barba ispida che mi punge una guancia, dolcemente.
Non so quanti minuti passano, mentre lui mi tiene tra le braccia. Mi aspettavo che volesse fare sesso a questo punto, per cui sono di nuovo disorientata; non so cosa fare e maledico la mia scarsa esperienza.
Inizio a muovermi a disagio, sotto di lui, e mi chiede: «Cosa c’è? Ti peso?»
«No, no» mi affretto a rispondere.
«Allora perché ti agiti come un’anguilla?» ridacchia irriverente.
Faccio un sospiro e non so che cosa dire.
«Rossa, che c’è?» domanda accarezzandomi.
In tutta la mia vita, non ho mai avuto difficoltà a esprimermi, tuttavia in questo preciso istante non riesco a trovare una frase adeguata. Mi schiarisco la voce. «Tu non hai… tu… insomma, tu non sei…» inizio e mi accorgo che sembro una collegiale imbranata.
«Ascoltami» mi interrompe serio. «Se fosse solo per me, in questo momento sarei già dentro di te a pompare come un dannato, dicendoti cose davvero molto sconce.» Mi si mozza il respiro di fronte a tanta volgare, sfacciata sincerità, e nel contempo mi ritrovo eccitata dalle immagini che tali parole stanno evocando. Poi lui continua: «Ma io non voglio che tu ti senta obbligata a fare qualcosa per cui non sei pronta. Hai capito, Rossa? Devi fare solo quello che ti senti. Possiamo anche tornare a dormire, senza problemi.»
E a dimostrazione di quello che ha appena detto si stende a pancia in su, incrociando le mani sotto la nuca.
Passano diversi secondi, tuttavia io non riesco a distogliere lo sguardo dal suo profilo. La fioca luce dall’esterno crea un eccitante gioco di chiari e scuri e la mia mano è attratta come una calamita verso i suoi addominali tesi: la allungo timorosa e incuriosita e, quando poso due dita, mi accorgo che Ryons trattiene il respiro. Per la prima volta, capisco qual è il potere che esercito su di lui e ciò mi rende più audace. Faccio scivolare il palmo sui suoi boxer e, quando percepisco il suo sesso gonfio, per istinto inizio ad accarezzarlo, con delicatezza.
«Rossa, così mi farai morire» mormora. «Se hai deciso di farlo, allora fallo bene.»
Solleva il bacino e si sfila i boxer; poi afferra il mio polso e con fermezza guida la mia mano sul suo pene. Quando glielo stringo penso che al mondo non c’è niente di più sensuale e mi domando come è possibile che non ci abbia mai fatto caso prima. Con Donald era diverso: lui era diverso o, forse, lo ero io.
Tutto in Ryons è durezza e, nel contempo, la sua pelle è morbida e calda sotto le mie dita. Niente ci accomuna, tuttavia sembra essere così perfetto per me.
Al mio tocco più deciso, lui geme forte, senza vergogna alcuna: invidio la sua disinvoltura, la sua capacità di stare nudo di fronte a me, eccitato ed esposto, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
«Rossa, usa la tua fantasia» suggerisce malizioso. «E magari anche la bocca.»
A quelle parole ritraggo subito la mano, spaventata.
«Ehi, cosa succede?» chiede sorpreso, voltandosi e appoggiandosi a un gomito.
«Scusa, è che… che…» mi interrompo, faticando a trovare qualcosa di sensato da dire.
«Che cosa?» chiede, allungando una mano per accarezzarmi il braccio. «Parlami, Rossa.»
«Non sei tu, è che…» mi schiarisco la voce prima di continuare «… insomma, diciamo che non ho molta esperienza in tal senso.»
Oh mayday…
Fantastico, adesso avrà la certezza che sono proprio come mi ha sempre immaginata: repressa e frigida.
Gli scappa una piccola imprecazione e poi mi abbraccia, ricominciando a baciarmi e ad accarezzarmi con passione fino a quando non mi rilasso di nuovo.
«Andiamo per gradi, ok?» Mentre lo dice riporta con gentilezza la mia mano sul suo pene, mostrandomi come gli piace essere toccato.
Lo assecondo, con il cuore che batte sempre più forte, e vengo ricompensata dal movimento del suo bacino che si fa via via più convulso e dai baci sempre più profondi. Infine, scosta la mia mano, si sdraia sopra di me e, continuando a muoversi contro il mio ventre, raggiunge il suo piacere.
Sento il suo seme caldo sulla pancia e il sudore della sua schiena sotto le mie mani e, mentre lo abbraccio forte, penso che non mi sono mai sentita meglio di così.
buongiorno
volevo sapere quando uscirà il secondo volume di point break e dove si potrà acquistare
grazie mille
laura
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Grazie 🙂