Posso contare sulle dita di una mano i momenti della mia vita nei quali mi sono sentita persa, con la voglia di sprofondare nelle viscere della Terra, per poi continuare a scavare nella speranza di sbucare dall’altra parte. Il primo è stato quando mio padre mi ha abbandonata, il secondo quando Arthur mi ha fatto capire, con i comportamenti se non con le parole, che per il bene della famiglia – la sua – era giunto il momento per me di togliere il disturbo. Il terzo momento lo sto vivendo proprio in questo istante, in uno squallido locale di Omaha in Nebraska, di fronte a una cameriera e all’uomo che, poche ore prima, era candidato a essere il mio primo, vero peccato di lussuria.
La donna mi guarda con occhi pieni di vivo interesse, nella palese speranza che io risponda e diventi la puntata vivente della sua nuova soap preferita. Io invece fisso con puro odio l’uomo seduto di fronte a me, che mi osserva attento, in attesa anche lui di una risposta.
Possono morire di vecchiaia entrambi.
«Le vostre bevande» dice la cameriera, posandole sul tavolino con lentezza esasperante.
Quando capisce che niente accadrà in sua presenza, gira i tacchi e, con un’espressione delusa, si toglie finalmente dai piedi.
«Allora?» sollecita Ryons.
«Come ti sei permesso di mettermi in imbarazzo in quel modo?» sibilo, tentando di mantenere un tono di voce basso.
In questo momento vorrei solo ucciderlo e poi lasciare il cadavere in qualche luogo facilmente raggiungibile dai saprofagi perché possano farne adeguato scempio.
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