LUPI E AGNELLI
Izet era seduto da ore oramai. Non sentiva quasi più il freddo e nella sua mente di bambino ragionava sul fatto che non era per niente una cosa bella.
Aveva dieci anni Izet e aveva una vita, almeno fino al giorno prima.
Erano arrivati di sera, nessuno li aveva sentiti, silenziosi come i raggi della luna. All’inizio, la cosa che lo aveva impressionato di più era stato proprio il silenzio. Aveva sentito parlare delle aggressioni, naturalmente, e nella sua mente aveva sempre pensato che sarebbero state feroci, aveva immaginato le grida e i comandi serpeggiare di bocca in bocca. Invece, all’imbrunire, quando il sole aveva abbandonato il cielo, quasi in un gesto di pietà, loro erano piombati nel totale silenzio, come falchi troppo concentrati nell’atto di non perdere la preda.
Ricordava che il padre, l’uomo che lo aveva cresciuto con amorevole rudezza, era intento a ricoverare gli animali nella stalla per impedire che il freddo potesse ucciderli. La madre, accanto al fuoco, pettinava i capelli di Majda la sua sorellina, per fortuna troppo piccola per accorgersi di qualcosa.
Il primo sparo squarciò la serenità di quel momento e Izet, in un attimo di consapevolezza, le diede addio per sempre. La madre lo guardò e dopo aver posato per terra la sorellina corse ad afferrare il suo logoro capotto.
«Mettiti le scarpe. In fretta!» gli ordinò con urgenza.
Nei suoi occhi Izet scorgeva il panico e allora anche lui iniziò a tremare come se avesse bisogno di questo per rendersi conto di avere paura.
Obbedì, come sempre, senza fiatare. La madre infilò in fretta pane e formaggio in una vecchia borsa che usava spesso il padre, gli passò una borraccia e gli calcò il berretto sulla testa.
«Nasconditi Izet e non uscire per nessun motivo. Promettimelo!»
«Mamma…» piagnucolò lui terrorizzato.
«Promettimelo!» disse con rabbia. Poi gli accarezzò il volto. «Devi essere bravo adesso. Devi vivere» e nel frattempo lo spinse verso la botola che conduceva alla cantina.
Izet non capiva del tutto, era confuso e spaventato, ma diede retta alla mamma, perché le mamme hanno sempre ragione e sanno quello che fanno.
Si calò in quella buia umidità e la madre, dopo un ultimo sguardo, chiuse la botola.
Pochi minuti dopo sentì il rumore della porta che veniva sfondata, il pianto improvviso della sorellina e il rantolo di angoscia della madre.
Nessuna voce.
Uno sparo e la sorellina smise di piangere, e la mamma iniziò ad ululare perché non si poteva chiamare in nessun altro modo quel suono macabro, potente, indimenticabile.
Nelle ore successive ci furono solo i rumori, le urla, le risate. Stava fermo Izet, ricordandosi a malapena di respirare, nel buio più totale, in attesa che si accorgessero della botola e che lo venissero a prendere.
Non accadde, come se Allah avesse avuto pietà e avesse disteso ali di angelo in grado di offuscare la mente dei suoi cacciatori.
Ore dopo i lupi parlavano e ridevano. Come se niente fosse successo. Parlavano del giorno dopo, il giorno di Natale e di come speravano di trascorrerlo con le loro famiglie, di come sentissero la mancanza dei loro figli.
Sembravano agnelli in quel momento, sembravano… umani.
In seguito, Izet si rese conto del passare del tempo solo perché ebbe sete e fame. Mangiò e bevve, guidato da un istinto vecchio come il mondo. Persino nella sua mente di bimbo ci fu un vago senso di colpa per questo atto, l’idea che fosse sbagliato farlo in simili circostanze. Poi si ricordò che era stata la mamma a dargli il cibo, il cuore si strinse e una nuova consapevolezza si fece strada. Doveva vivere. Glielo aveva promesso. Lei aveva scelto di salvarlo, avrebbe potuto nascondere anche Majda con lui, ma aveva solo due anni e non sarebbe riuscita a stare zitta, facendoli scoprire tutti e due. Doveva vivere perché la madre aveva fatto una scelta e lui doveva onorarla.
Alla fine si addormentò, rannicchiato sul sudicio pavimento, tremante ed esausto.
Si rese conto che era giorno solo dai muggiti. Le vacche reclamavano l’attenzione ed emettevano richiami uditi poche altre volte. Il padre le accudiva la mattina prestissimo, proprio per impedire che soffrissero; diceva che non era bello ricambiare la loro generosità trascurandole.
Non sapeva cosa fare Izet. Non poteva certo restare per sempre dentro la cantina, ma aveva timore che i lupi non se ne fossero ancora andati. Li immaginava ubriachi dopo una notte passata a bere, ma capaci comunque di ucciderlo anche solo con lo sguardo.
Alla fine fu più l’angoscia del buio a spingerlo. Salì i cinque scalini che portavano alla botola e la sollevò lentamente, sbirciando dallo spiraglio. Per un istante la luce lo accecò e chiuse gli occhi. Quando finalmente si riabituò vide che la cucina era vuota e c’era il silenzio dell’abbandono. Rincuorato aprì del tutto e strisciò fuori, come partorito dalle viscere della terra. Con cautela si diresse verso la porta, rimasta spalancata.
La prima cosa che percepì fu l’odore. Acre, pungente, alieno. Abitando in una fattoria le uniche volte che aveva sentito qualcosa di simile era quando ancora funzionava il vecchio trattore e il padre ogni tanto lo riforniva di carburante.
All’inizio non si rese conto di quello che stava guardando; erano ammassi anneriti in mezzo al cortile. Poi, piano, nella sua mente di bambino si cristallizzò il concetto. Cadde in ginocchio di fronte a quella che un tempo era stata la sua famiglia. Sentì la neve che penetrava nel tessuto dei pantaloni, ma non se ne curò più di tanto. Non pianse Izet, in quell’angolo di mondo non se lo poteva permettere neanche uno piccolo come lui, non più.
Raccolse altro cibo, si impossessò di una coperta e decise che doveva andarsene prima che i lupi tornassero.
Camminò Izet, per molto tempo. Si teneva lontano dalle strade principali e la fortuna sembrò assisterlo. Il suo vagare aveva un senso. L’unica possibilità di sopravvivenza era raggiungere il villaggio dello zio, il fratello della madre, sperando che i lupi non fossero arrivati anche lì. Distava parecchi chilometri, tanto che anche con il vecchio camion ci mettevano mezza giornata. Avrebbe voluto viaggiare di notte, ma persino lui si rendeva conto che sarebbe stato proibitivo per il freddo e troppo pericoloso per il buio.
Si fermò solo poche volte, per orinare e per consumare qualche boccone di pane e formaggio. Non sapeva quando avrebbe potuto trovare altro cibo ed era preparato alla fame. Per fortuna, per l’acqua non c’erano problemi.
Era quasi giunta la sera quando, nell’incrociare una delle strade di penetrazione, vide il carro rovesciato e i corpi.
Non voleva avvicinarsi Izet, per istinto sapeva che non avrebbe trovato niente di buono.
La curiosità vinse sulla ragione.
Erano una donna e un uomo, morti ovviamente, entrambi con un foro in testa inferto con precisione maniacale in mezzo alla fronte.
Cecchino! pensò allarmato e si buttò per terra. Restò lì un po’, guardandosi intorno con il cuore che batteva forte nel petto e la paura di sentire da un momento all’altro la detonazione che avrebbe posto fine anche alla sua vita.
Non accadde e alla fine Izet si convinse che chiunque fosse stato se ne era andato già da un pezzo.
Poi lo udì. Un miagolio basso, una specie di gorgheggio indistinto che proveniva dal carro. Un brivido gli attraversò la schiena. Aveva sentito parlare degli shayatin, demoni che forse erano stati angeli, ma che avevano deciso di non credere. Forse Allah li aveva mandati per punirlo, perché era stato l’unico a salvarsi e non aveva fatto niente per aiutare la sua famiglia.
Si fece coraggio e sbirciò dentro il carro. Stretto, in una coperta che lo faceva sembrare un enorme verme, c’era un bambino. Izet si ricordava di quando Majda aveva quell’età. Il piccolo agitava le gambe e i piedi nel tentativo di liberarsi della stoffa e ogni tanto emetteva un piccolo vagito di frustrazione. Izet rimase pietrificato. C’erano decisioni che poteva prendere con facilità, era abbastanza grande per farlo, altre erano troppo difficili.
Sapeva che non poteva fare niente per lui, era a malapena in grado di sopravvivere da solo, figurarsi badare a un altro essere vivente.
Si alzò e si voltò, deciso a lasciare quel posto prima che arrivasse qualche altra pattuglia. Aveva già fatto parecchi metri quando il bambino iniziò a piangere. Se fosse stato più veloce forse non lo avrebbe udito e le cose sarebbero andate diversamente.
Invece lo sentì e ogni cosa dentro di lui si ribellò all’idea di lasciarlo. Semplicemente non poteva.
Rassegnato tornò indietro e lo osservò. Non appena il bimbo si accorse della sua presenza smise di piangere e iniziò a fissarlo. Non era più un neonato, ma non era ancora in grado di camminare. Izet si guardò intorno e vide la donna distesa per terra, la madre di sicuro; intorno al busto aveva un vecchio scialle di lana, infeltrito, abbastanza ampio da avvolgere il corpicino del figlio. Per un momento Izet immaginò la donna intenta a fare le faccende con il bambino dentro lo scialle, come anche sua madre usava fare con sua sorella quando era piccola.
Rassegnato si avvicinò al cadavere della donna e, quando le sfilò lo scialle per indossarlo, una piccola catenina con appesa una croce si impigliò nel tessuto. Izet la fissò come se fosse un serpente velenoso e in pochi secondi si rese conto che quelli erano dei cristiani, il nemico. Per un istante questa consapevolezza lo esaltò: l’idea che qualcuno della sua gente avesse vendicato la sua famiglia lo inebriò. E ora anche lui poteva fare qualcosa per vendicare la memoria dei suoi genitori, lasciando quel piccolo frutto del demonio a se stesso. Forse che quegli animali avevano avuto pietà della sua sorellina, poco più grande?
Tornò di nuovo sulla strada, deciso a lasciare quel luogo il prima possibile.
Ma non ce la fece. Lui non era così. I suoi genitori erano persone tolleranti, non avevano mai dato peso alle differenze, avevano sempre detto che gli uomini erano uguali di fronte alla propria coscienza. Si vergognò dei pensieri avuti poco prima, si rese conto che i lupi erano da entrambe le parti e che lui preferiva essere un agnello.
Recuperò lo scialle, afferrò il bambino e lo sistemò come meglio poté, in modo da non avere i movimenti impediti e distribuire il peso del piccino.
Sapeva di latte e di quell’odore che hanno tutti i bimbi piccoli, un misto di talco e urina.
Lo prese con sé Izet, perché era l’unica cosa giusta da fare.
Camminare con quel peso era più faticoso. Poco dopo dovette fermarsi. Bevve dell’acqua e inumidì la bocca del bimbo. Non sapeva se fosse in grado di mangiare il formaggio, ma gliene mise in mano un pezzo abbastanza grande perché potesse succhiarlo senza soffocarsi. Ricordava che la mamma era sempre attenta a impedire a Majda di infilarsi della roba piccola in bocca, aveva paura che le andasse di traverso.
Quando giunse la sera iniziò a nevicare; prima pochi fiocchi sporadici, poi grosse falde che impedivano di vedere persino a un paio di metri di distanza. Izet sentiva il corpicino del piccolo tremare e poco dopo il bimbo iniziò a piangere per il freddo.
Cadde più volte dalla stanchezza Izet, e alla fine si fermò sotto un grosso albero, incapace di continuare. Sapeva che se avesse lasciato il bambino si sarebbe potuto salvare, ma non era in grado di farlo.
Sarebbero morti insieme e almeno lui avrebbe potuto dire di aver tentato di salvare qualcuno, oltre che se stesso.
Non sentiva più le gambe Izet e il suo capo ogni tanto cedeva verso il petto. Se si fosse addormentato, sarebbe morto.
Pazienza, aveva promesso di vivere, ma era sicuro che sua madre lo avrebbe perdonato.
Una luce improvvisa illuminò l’oscurità. Una figura maestosa, completamente vestita di bianco si avvicinò. Izet dovette schermarsi gli occhi per non venirne abbagliato.
L’essere non era né uomo, né donna, almeno non per i criteri che lui conosceva. Sorrideva ma lo guardava con tristezza.
«Chi sei? Sei Allah? Un suo angelo?» chiese Izet. Era quasi sicuro che non fosse uno shayatin, era troppo bello. Il bimbo, intanto, aveva smesso di piangere e fissava meravigliato quell’essere di luce e calore.
«No, Izet, non darmi un nome perché non ne ho. Se proprio vuoi capire, in questo momento considerami la pietà del mondo.»
«Se non sei Allah, allora sei il loro Dio» disse Izet intimorito. Non capiva bene, sapeva solo che non provava più freddo e che il bambino si era addormentato sereno.
«Sono quello che preferisci Izet, quello che il tuo cuore cerca. Questo è un giorno speciale, per tutti i credenti e anche per quelli che non credono. E in questo giorno speciale tu non hai salvato solo una vita, ma tutta l’umanità. Stavamo per cedere e mandare un’altra apocalisse, ma tu ci hai fatto capire che c’è ancora speranza. Vieni con me, ti condurrò nel posto che meriti.»
Izet si alzò e tese la mano verso quell’essere. Una grande pace si impadronì di lui e poi fu il buio.
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