Quando mi è stato chiesto di recensire Point Break. Book one: in the city, ho avuto contemporaneamente due reazioni quasi opposte: gioia intensa, perché essere chiamata a esprimere un’opinione su qualcosa che ami alla follia è sempre fortemente gratificante, e profonda ansia, perché quando ami qualcosa alla follia è dura essere colei che dovrà cimentarsi nell’ardua impresa di renderle giustizia.
Ora ci proverò e, se dovessi fallire, sappiate che ce l’ho messa proprio tutta.
Tutti noi approdiamo a Point Break. Book one: in the city dopo lunghi mesi trascorsi in palpitante attesa, iniziata, ahimè, nel momento esatto in cui abbiamo chiuso il volume – o cliccato sull’ultima pagina dell’ereader – e detto addio a malincuore ai personaggi di Big Apple. Come probabilmente saprete, quando il primo libro di una serie è stato così intensamente amato, il secondo è sempre un po’ un azzardo. Per dirla in parole tanto grezze quanto evocative, l’autore di solito se la fa nelle mutande per paura che i suoi affezionati lettori, gli stessi che tanto hanno osannato la sua prima creatura, dichiarino crudelmente la seconda un malriuscito tentativo di uguagliarne l’eccellenza.
Ecco, ora la mia vena sadica potrebbe spingermi a continuare questo lungo preambolo per tenere voi – ma soprattutto l’autrice – con il fiato sospeso, ma siccome chi mi conosce bene sa che sono disgustosamente buona, non indugerò oltre.
Point Break. Book one: in the city è, a tutti gli effetti, un capolavoro. Ok, sto esagerando. È un mezzo capolavoro. Lo sarà tutto intero, su questo non ho alcun dubbio, quando avremo fra le mani anche la seconda parte: Point Break. Book Two: on the road.
E tutto ciò ve lo dice una che ha conosciuto Marion Seals per la sua serie urban fantasy, The Dark Side, e che tuttora la considera ineguagliabile, finanche dalla sua stessa autrice. Insomma, non ce n’è per nessuno, non toccatemi i miei mutanti.
Eppure, se Big Apple mi aveva conquistata con la sua deliziosa freschezza, la sua fine ironia e l’assoluta originalità di una storia che all’apparenza potrebbe apparire trita e ritrita, Point Break. Book one: in the city mi ha del tutto stesa. Il secondo libro della serie sgorga con fluente naturalezza dal primo e ne è l’evoluzione, più ricca, elaborata, sapientemente costruita in ogni minimo, meraviglioso dettaglio. Diciamo che se in Big Apple l’autrice sembrava chiederci “lo sapevate che sono brava?”, in Point Break. Book one: in the city ci sta dicendo “adesso vi faccio vedere quanto”.
Il romanzo si apre con la presentazione dei quattro personaggi principali, la doppia coppia di protagonisti che ci accompagnerà per tutto il libro. Già da queste prime pagine, l’autrice mantiene la parola, mostrandoci la sua incredibile bravura nel disegnare un personaggio con pochi tratti precisi, nel farlo esistere, pensare, essere a tutti gli effetti una persona a tutto tondo. Randy, Charlotte, Ryons e Iceman si aprono con il lettore, si mettono a nudo, ci raccontano il loro passato e le esperienze che li hanno resi quello che sono. E noi li ascoltiamo, con il fiato sospeso.
Randy, il nostro stilista preferito, ci parla del momento in cui ha scoperto la propria omosessualità e delle difficoltà che ha dovuto superare per costruirsi un’identità forte, completamente risolta, e lo fa con l’impareggiabile ironia che lo contraddistingue, ma anche con un’intensità e una profondità che ce lo fanno apparire sotto una luce completamente diversa rispetto allo scanzonato dandy, sempre allegro, che avevamo imparato ad amare in Big Apple.
La stessa cosa vale per Charlotte, una donna che dal di fuori appare dura, fredda e controllata, ma che dentro ha un intero universo di emozioni represse che attendono solo l’occasione giusta per trasformare il ghiaccio in fuoco. Una donna fondamentalmente impaurita , che sceglie di non vivere per il timore che, se si azzardasse a farlo, dopo sarebbe ancora più infelice “perché non puoi rimpiangere un gusto mai provato o un bacio mai ricevuto, mentre puoi struggerti nel ricordo del momento perfetto che non si ripeterà mai più”.
E poi ci sono loro, gli “uomini duri”, ex militari che hanno vissuto a così stretto contatto con le peggiori brutture della vita e le perversioni dei loro simili, che ti chiedi come possano aver conservato anche solo una parvenza di fiducia nel genere umano.
Ryons, ex Delta Force, è una specie di compendio vivente del maschio alfa. Ma non di quelli che, sì, ti eccitano “a bestia”, ma in fondo in fondo ti fanno anche girare un po’ le scatole con ‘sti cavolo di muscoli che non si sgonfiano mai. No, lui è uno di quelli perfetti. È l’uomo dal quale tutte, ma proprio tutte nessuna esclusa, sogniamo di essere protette. Possibilmente per sempre. Inutile dire che a pagina 10 (approssimativamente calcolata, perché il Kindle le pagine non le ha) ne ero già perdutamente innamorata.
Iceman, invece, ex Navy SEAL, con la sua storia agghiacciante e le sue ferite profonde come solchi indelebili, con la sua incapacità di accettare se stesso per trovare il proprio posto nel mondo, ti scioglie qualcosa dentro, e non a causa dei suoi quasi due metri di muscoli perfettamente allenati. Lui te lo dice fin da subito: “Sono cresciuto a pane e odio”. E fin da subito tu vorresti solo abbracciarlo e tenerlo stretto fino a cancellare anche il ricordo di quell’odio.
Dopo aver conosciuto i quattro protagonisti e aver sbirciato così in profondità nelle loro vite ci si sente dei privilegiati, un po’ commossi e un po’ indignati, sicuramente ansiosi di conoscerli ancora meglio, di sapere che cosa faranno, cosa penseranno, come interagiranno e come il loro interagire cambierà le loro vite. Ed è lì che l’autrice ti sferra la prima mazzata.
La scena nell’ascensore (non insistete perché tanto non vi racconterò altro) è un attentato alla sanità mentale di chi legge. Non tanto perché uno non se lo aspettasse – se hai letto gli altri libri della Seals sai che è perfettamente in grado di ridurti a un essere sbavante – ma perché dovrebbe essere illegale farlo così presto e così bene. E non è finita lì. Perché se per caso ce l’avevi fatta a non ansimare come un mantice, il doppio punto di vista ti dà il colpo di grazia. Mai abusato, questo è uno strumento straordinario che qualche volta Marion usa per farti entrare ancora più dentro la storia: descrivere la stessa scena dal punto di vista di entrambi i personaggi, quando è fatto bene, come in questo caso, è uno splendido regalo per chi legge.
Ma quello che rende questo romanzo un capolavoro, ebbene sì, non sono le pur magistrali scene di sesso o di seduzione. È il fatto che subito dopo una parentesi bollente, stai ridendo, o meglio, sorridendo di gusto, per un’altra scena che ti ricorda le migliori commedie americane degli anni cinquanta o sessanta – quelle in cui gli sceneggiatori sapevano ancora coniugare romanticismo e umorismo senza snaturare per nulla né l’uno né l’altro – e benedici il dio degli scrittori che ha fatto sì che quelli bravi padroneggino ogni abilità, compresa quella inestimabile dell’ironia.
Le due coppie, poi, sono irresistibili.
Iceman e Randy. L’uomo che per esprimersi usa meno parole al mondo e quello che in assoluto ne usa di più. Forse proprio perché un’unione tra loro appare così improbabile, insieme sono perfetti, a tratti esilaranti, a tratti intensamente toccanti. Voglio citarvi una parte di un monologo di Randy a Iceman, uno dei passaggi che più mi hanno colpita nel libro.
“Sai, Iceman, la vita assomiglia a una tavola da surf. A volte stai ore ad attendere, circondato dalla calma più assoluta, e poi all’improvviso… eccola! L’onda perfetta. Quella che ti porta in paradiso. Allora la devi cavalcare, altrimenti non saprai mai che cosa si prova davvero. Vedi, per troppo tempo io stesso ho cercato di evitare quell’onda, ma ora non voglio più farlo. Tu hai solo due scelte: puoi scappare oppure puoi restare e vedere come potrebbe andare tra noi. E tu sai meglio di me che sono i vigliacchi che scappano, mentre tutti gli altri restano”.
Una sola parola: sublime.
Passiamo a Ryons e Charlotte. E Regina. Perché per me il pastore tedesco di Ryons è parte integrante della coppia, o forse dovrei dire del trio. Il cane, per come l’ho vissuto io, è un tramite fra loro, la creatura dispensatrice di amore incondizionato sulla quale entrambi sembrano riversare il sentimento che provano l’uno per l’altra e che ancora, per adesso, insistono a negare.
L’attrazione fra loro, d’altra parte, è evidente ed esplosiva fin dal primo sguardo, e l’autrice ci gioca con consumata maestria, torturandoci. Charlotte è una tosta, una che non si fa mettere i piedi in testa, e il maschio alfa scalpita ma resiste:
“È la terza volta che la incontro e, quando fa così, sono sempre indeciso se sculacciarla o scoparmela. In entrambi i casi con l’intenzione di punirla. A lungo. Molto a lungo”.
Noi, indovinate un po’, preghiamo che lo faccia, ma lui niente, è un uomo tutto di un pezzo. O quasi. C’è una frase a un certo punto del libro, una piccola opera d’arte, che a mio parere ci dice tutto di lui. Del suo essere sì dominante, ma profondamente onesto, di quell’onestà che non ha nulla di perbenista ma che viene dal profondo di un’anima che nonostante tutto è rimasta pura.
Lei lo vuole da morire, ma gli resiste, perché la donna che fuori è di ghiaccio dentro è una bimba impaurita. E lui lo sa.
“Potrei proseguire e farla cedere, ne sono convinto, ma un no resta un no, anche se bugiardo”.
Il che, più o meno, riassume tutto quello che ci piace in un uomo.
E poi ci sono Lex e Dora, i protagonisti di Big Apple che ognuno di noi porta incisi nel cuore. Lei lo tiene per le palle, come non mancano di commentare i duri ex militari al suo servizio, ma lo fa in modo adorabile. E…
“Stenton, preso in contropiede, fa l’unica cosa che farebbe qualunque maschio di fronte a una richiesta proveniente dalla fonte dei suoi orgasmi”.
Il che, più o meno, significa tutto quello che serve per renderla incredibilmente felice. Lex è sempre fantastico, ma avendo smesso i panni del protagonista può finalmente rilassarsi e amare la donna della sua vita in modo trasparente, senza dover per forza rispettare le “regole del maschio dominante”. Rimane un burattinaio con il resto del mondo, ma, nel nome dell’amore, ha accettato che qualcun altro tenga in mano i suoi, di fili. E per evitare che la sua adorata Fedora soffra, utilizza ogni sua risorsa e tutto il proprio immenso potere per proteggere le persone a lei care: il suo migliore amico Randy e la cugina Charlotte, che a causa di un maledetto scherzo del destino si trovano in grave pericolo.
La parte “suspense” della storia è costruita benissimo, perfettamente credibile ed emozionante, come ogni altro aspetto del romanzo. La scrittura di Marion Seals è pura poesia, è musica, è gioia ineffabile per chi, come me, apprezza infinitamente l’arte della parola, del saper raccontare, per chi ama la nostra lingua e i suoi milioni di straordinarie sfumature. Lei le padroneggia tutte, dalla prima all’ultima. Usa termini come “ravvisare” e “colludere”, e senza battere ciglio fa pronunciare ai personaggi di un romance frasi come “stanti queste premesse”, li fa accomodare su “sedie interlocutorie”, dissemina la narrazione di immagini che sono piccole, preziosissime perle, un esempio fra tutti: “tiro fuori la lingua e lascio una scia di me sulla sua pelle”. Lo fa così, con assoluta naturalezza, tra un’azzeccatissima battuta di spirito e una parolaccia del tutto necessaria, mescolando abilmente leggero e profondo, sacro e profano.
E noi la ascoltiamo incantati, rapiti, augurandoci che un paio di mesi passino presto perché, viste le premesse contenute nel finale, la seconda parte on the road del romanzo, l’altra metà del capolavoro, non potrà fare altro che completare un miracolo annunciato.
Voto: 5
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