Per comprendere appieno cos’è un romanzo come Point Break, forse bisogna innanzitutto capire cosa esso non è e non sarà mai.
Non è una di quelle storie, come ce ne sono molte ultimamente, in cui la trama appare scontata e prevedibile. Ogni capitolo è intrigante e coinvolgente grazie ad una scrittura che affronta il punto di vista (POV) dei suoi principali protagonisti, intessendolo con maestria, come solo un’esperta psicologa è in grado di fare, quale Marion Seals è nella sua vita professionale infatti, e immedesimandosi in personalità tanto complicate quanto diverse tra loro.
Vi è una grande preparazione nella creazione di questa trama, è chiaro a chiunque. Una preparazione attenta ed efficace che si palesa nella scelta dei luoghi e delle scenografie, delle leggi e della società civile, della cultura e persino del gergo o delle espressioni linguistiche professionali, da quelle legate al mondo della politica fino all’alta finanza, dalla mafia russa stabilitasi a New York fino al Ku Klux Klan del profondo sud degli Stati Uniti, fino alle Compagnie Militari Private e alle Forze Armate americane.
Insomma, un lavoro di sapiente ricerca che risulta visibile nella descrizione di tutto ciò che circonda i protagonisti, fisicamente e moralmente, siano essi gli abiti, le automobili, le armi, gli uffici, le uniformi, gli arredamenti, le strade, la geografia del mondo esterno ma anche aspetti non materiali come le mille altre sfaccettature interiori, che arricchiscono il lettore, stimolandolo ad un confronto culturale di grande valore.
Poche volte mi è capitato di sentirmi così arricchito e appagato nel leggere qualcosa che mette insieme realtà e fantasia fondendole, al punto da essere proiettato davvero dai grattacieli di New York alle luci lampeggianti dei Casinò di Las Vegas, dalle paludi della Louisiana ad un villaggio dell’Afghanistan.
La Seals non sceglie un luogo, solo perché il nome suona bene ed è nell’immaginario dei lettori grazie ai film hollywoodiani, lo sceglie perché esso si trova lungo la strada della storia che vuole raccontarci, ed è lì che conduce il lettore dolcemente e senza sforzo.
In definitiva, Marion Seals non scrive qui un libro che ha la pretesa di essere un saggio o un manuale, ma sa trovare delle precise rispondenze con la realtà fuori dal libro, così ben definita in questo romanzo, allo scopo di dare al lettore una profonda empatia con quello che legge e, soprattutto, l’onesta intellettuale che quest’ultimo merita.
Che vi sia un’approfondita ricerca nella personalità dei quattro protagonisti lo abbiamo già detto, ma vogliamo ribadirlo soprattutto per ciò che si legge nei dialoghi di questo romanzo, sempre carichi di quella speciale energia che caratterizza tutti i romanzi della Seals ma che, in questa trama così fitta di avvenimenti, li vede dotati di un ulteriore grande magnetismo, di frizzante ironia, di passione e sessualità che non diventa mai volgare o stereotipata, di dialogo interiore nel rielaborare il proprio passato e i propri sentimenti, di tormento e di estasi, fino a quell’evoluzione che ogni personaggio dovrebbe avere nel corso di una storia, affinché non rimanga piatto ma cresca insieme alla storia stessa.
L’autrice qui c’è riuscita a ottenere tutto questo, e molto di più, perché è stata in grado di realizzare per ognuno dei personaggi, persino per quelli che dovrebbero essere solo secondari e che, invece, non sono mai ridotti a semplici comparse, un’attenta ricerca di quello che dovrebbe essere il loro modo di vedere la vita.
Ci sono cose nei loro POV che il lettore riesce a percepire poiché si immedesima facilmente in ciò che legge, sia per i personaggi femminili e sia per quelli maschili indifferentemente.
Ecco allora che questo romanzo non sarà mai una ricetta scialba e povera di descrizioni o fatta di dialoghi monosillabici come spesso leggo in altre storie. Al contrario, invece, ha tutti gli ingredienti per essere una storia ricca e dettagliata, che può appartenere non solo al Romantic-Suspense, come riesce già ad essere egregiamente, ma anche alla narrativa mainstream.
Lo vediamo nei toni ironici come nelle piccole manie ossessive di Charlotte per esempio, o esplosivi e a tratti comici come nel rapporto che ha con il mondo intero Randy, oppure tormentati e a tratti crepuscolari come quelli di chi, nei personaggi di Ryons e Finnigan, ha combattuto delle guerre in giro per il mondo nel nome di qualcosa o qualcuno, rimanendone imprigionato come in un incubo, per scoprire poi che il vero nemico alla fine era dentro loro stessi e non fuori.
In questa storia, come avevamo già visto nel volume precedente che ce li aveva presentati perfettamente, le certezze dei quattro protagonisti si sbriciolano finalmente di fronte all’unico solvente che la vita possiede per sciogliere le brutture del mondo: il sentimento dell’amore.
E sono proprio i sentimenti quelli che, più di tutti, caratterizzano questo secondo volume ancor più del precedente che ci aveva introdotto in quel mondo, fino a farci desiderare con ansia il secondo. Scelta oculata e condivisibile perciò, quella dell’autrice, di dividere in due volumi questo lungo romanzo.
Un’ampia gamma di emozioni in uno spazio narrativo enorme, che penetra l’anima del lettore e che, come in uno specchio, svela i sentimenti più intimi e nascosti dei personaggi: per esempio, e non solo, nel dialogo che uno di loro, Iceman, ha con se stesso quasi parlasse con il lato oscuro che tutti abbiamo nella nostra anima e che Freud definiva abilmente “il nostro mostro interiore”.
Tanto quanto il precedente volume, anche questo è ricco di situazioni che sorprendono, facendo saltare sulla sedia il lettore per dei colpi di scena imprevedibili, ma facendolo anche divertire, e facendolo persino piangere di commozione sincera, per degli elementi opposti che, voglio sottolineare, caratterizzano di solito i grandi autori.
Ho lavorato come giornalista free-lance per un decennio e ho scritto anche delle recensioni per la narrativa di vario genere, questo mi ha permesso di formarmi una precisa opinione: e cioè che sono i grandi autori quelli che stanno attenti, più di tutti, a fornire al lettore degli spunti morali importanti e delle riflessioni umane profonde. E’ questo che succede infatti quando un autore rispetta l’intelligenza dei propri lettori, fornendo loro una storia che non ha una fine con la chiusura dell’ultima pagina del libro, ma prosegue ancora dopo, nella vita quotidiana, aiutandolo persino a riflettere su dei grandi temi, come quelli affrontati qui in Point Break: quali la paura di essere se stessi accentando la propria omosessualità, come succede a Finnigan; la voglia di essere normali sapendo di esserlo seppur non accettato dal sentire comune, come nell’affermazione sociale e sentimentale di Randy; la paura di innamorarsi e lasciarsi andare all’anarchia dell’amore, come accade con Charlotte; la voglia di tenere lontana la cattiveria umana e vivere una vita libera dal peso del mondo, come vediamo in Ryons. Tutti aspetti, questi ultimi, che troviamo nei vari personaggi ma anche in noi stessi quando indaghiamo la nostra stessa vita. Questo mi porta anche ad una ulteriore nota, relativa alla scelta del titolo.
Point Break infatti non ha alcun riferimento al gergo surfistico che è stato usato come titolo di un fortunato film di Hollywood. Se si supera la solita lettura superficiale, oggi tanto diffusa sui Social Network, che cerca di fare paragoni inutili tra il titolo di quel film e quello di questo romanzo, si comprende subito che non vi è alcun legame né alcuna scelta di comodo. Il Punto di Rottura visibile nella storia infatti, non è certo quello dal sapore sportivo usato nel surf, ma ha un preciso collegamento con il linguaggio della psicologia, intesa come scienza comportamentale.
Laddove la personalità di ogni essere umano ha un limite auto-imposto che, una volta raggiunto e superato, ovvero rotto, riesce a spezzare tutte le granitiche certezze e le cristallizzazioni della propria storia personale. Esattamente ciò che. capitolo dopo capitolo, accade ai protagonisti del romanzo.
Forse sarà alquanto banale la mia affermazione ma, sono sicuro che prima di giudicare un romanzo da un titolo che abbiamo già sentito da qualche altra parte, bisognerebbe leggere quel romanzo stesso, e capire così il perché di quella scelta.
Conosco personalmente Marion Seals e so quanto lavoro preparatorio vi è stato da parte sua dietro alla lunga realizzazione di questo romanzo. Ho apprezzato, personalmente, il rispetto che ha avuto nella descrizione fedele di tutti quei caratteri legati al mondo delle Forze Armate americane e, soprattutto, alle Compagnie Militari Private, di cui fanno parte due dei protagonisti: Ryons e Finnigan. E devo dire che mi ha emozionato leggere le avventure e i pensieri intimi di questi due personaggi, come fossero quelli di miei ex-commilitoni sia del mondo militare che di quello dei contractors.
Era ora che qualcuno descrivesse nella maniera corretta e per nulla stereotipata, gli uomini e i reparti militari speciali a cui essi appartengono, ma soprattutto, che descrivesse gli aspetti umani di questi individui.
Non sono macchine sessuali né macchine da guerra, come lo stereotipo diffuso ha finito per descrivere nei romanzi e nei film queste persone. Sono esseri umani, capaci di sbagliare, di ritornare sui propri errori e, infine, di amare.
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